Anno XX, n. 220
maggio 2024
 
La cultura, probabilmente
Le lotte e le vittorie:
una panoramica della storia
moderna del femminismo
Il genere e il ruolo sociale della donna sono temi complessi,
influenzati da vari fattori culturali, storici, economici e politici
di Ivana Ferraro
Il tema che si vuole passare in rassegna in questo contesto è cruciale per comprendere le dinamiche “evoluzionistiche” che plasmano la vita delle donne in tutto il mondo. Infatti, si esamineranno di seguito gli eventi storici più salienti, le sfide che connaturano la quotidianità e i progressi che sono stati raggiunti.
Per un lasso di tempo davvero notevole, nell’immaginario collettivo, la donna è stata rappresentata in una stereotipia ben radicata e strutturata: come “angelo del focolare domestico”, accudente, riverente e sottomessa. Eppure, risulta semplice rilevare come nel corso della storia, tale figura sia notevolmente cambiata: essa era dea, faraona e talvolta anche santa.

La nascita di una questione femminile
Nel corso dell’età moderna, l’Illuminismo contribuì a diffondere idee di uguaglianza. Emerse la richiesta di maggiori diritti per le donne, e alcune figure di spicco come Mary Wollstonecraft sostennero con fervore l’uguaglianza di genere. Alla filosofa illuminista inglese si devono sostanziali e rilevanti contributi. In particolare, A Vindication of the Rights of Woman rappresenta l’opera più importante della sua produzione scritta, ma non è possibile comprenderla a pieno senza passare prima da Vindication, che pone le fondamenta politiche sulle quali si basa tutta la filosofia wollstonecraftiana.
Le radici politiche del suo pensiero sono rintracciabili principalmente in due opere di Jean-Jacques Rousseau: il Discorso sulla disuguaglianza fra gli uomini e Il contratto sociale. Secondo il filosofo ginevrino, la nascita della proprietà privata avrebbe implicato l’emergere di disuguaglianze naturali tra gli individui determinando lo sviluppo di classi sociali.
Riprendendo la visione rousseauiana, Wollstonecraft rivolge una vera e propria invettiva in tutta A Vindication of the Rights of Men definendo la proprietà «una muffa distruttiva che rovina le virtù più giuste». La soluzione proposta da Mary Wollstonecraft è la suddivisione paritaria delle proprietà tra tutti i cittadini affinché ognuno abbia la possibilità di emanciparsi e di vivere dignitosamente. Ed è proprio su questa evidente discriminazione che la filosofa innesta la riflessione sui diritti delle donne. Queste ultime erano vittime di una notevole disuguaglianza che si sosteneva anche (e in parte soprattutto) sui risultati della scienza più in voga che rendeva le donne inferiori per natura, inadatte al possesso di qualsiasi proprietà.
Nel XVIII secolo molti filosofi, tra i quali il già citato Rousseau, affermavano che il ruolo della donna doveva essere subalterno all’uomo con l’obiettivo di servirlo per tutta la vita. Da qui, nella seconda Vindication Wollstonecraft inveisce principalmente contro Rousseau, che nell’Emilio o dell’educazione dedica un intero libro all’educazione femminile descrivendo le donne come «esseri civettuoli» interessati solo all’abbigliamento e alle frivolezze.
L’analisi wollstonecraftiana non lascia dubbi in merito: le donne sono frivole e superficiali non per natura, ma a causa dell’educazione che ricevono fin da bambine. Se, infatti, avessero la possibilità di accedere alla medesima istruzione dei maschi, diventerebbero donne adulte consapevoli e in grado di autodeterminarsi senza l’aiuto di nessuno. La suddivisione equa delle ricchezze e l’educazione paritaria sono i due elementi che Wollstonecraft considera fondamentali per poter costruire uno stato giusto, equilibrato e aperto al progresso verso la costituzione di una società che di fatto garantisca gli stessi diritti e lo stesso benessere a tutti i cittadini. L’analisi della filosofa inglese avvia nel corso dei secoli un discorso pregnante a cui molte altre si adegueranno e amplificheranno.
In merito, basta riferire che, mentre in Inghilterra si era fatta avanti Mary Wollstonecraft, in Francia è inevitabile ricordare Olympe de Gouges e la sua celeberrima opera Dei diritti della donna e della cittadina.

Una lunga attesa prima di vedere risultati veri e tangibili
Anche se in Italia il movimento emancipazionista o meglio definito “delle suffragette” giunse tardi rispetto agli altri paesi, le donne della classe operaia e del ceto medio inferiore, lavoratrici di fabbrica, impiegate, insegnanti delle città industriali del Nord ebbero il coraggio di movimentare l’opinione pubblica. Basti ricordare per esempio Clara Maffei e Cristina Belgiojoso, due attiviste risorgimentali che dimostrarono di avere tutte le caratteristiche per contribuire alla vita politica del paese.
Quasi ovunque, però, le suffragette devono attendere decenni per vedere risultati veri e tangibili: il suffragio viene esteso alla popolazione femminile solo nel Novecento. In Europa il primo Stato a permettere alle donne di votare è la Finlandia nel 1906. La Gran Bretagna concede il suffragio alle sue cittadine solo nel 1918, negli Stati Uniti le donne giungono all’agognato traguardo il 26 agosto 1920, mentre le italiane e le francesi dovranno aspettare fino al secondo Dopoguerra, precisamente la Francia il 21 aprile 1944, sotto il governo gollista, e l’Italia le amministrative del 10 maggio 1946. Tutto ciò a causa di governi molto irriverenti e poco sensibili alle lotte condotte dalle donne.

Gli anni Sessanta e Settanta: l’irrompere della questione della donna
La questione della donna si ripropone negli Stati Uniti per tutto il Novecento. Dopo la guerra, gli Usa assistono a un boom economico ancor più esplosivo di quello europeo, e la prosperità contribuisce a rendere obsolete le vecchie strutture sociali, già compromesse durante il conflitto, con le donne che avevano sostituito nelle fabbriche gli uomini impegnati al fronte.
I temi cari alle donne di questo periodo sono innovativi e spesso scandalosi per l’epoca: si parla di sessualità, di stupro e violenza domestica, di diritti riproduttivi, ma anche di parità di genere sul posto di lavoro. Sono anni di trasformazioni rivoluzionarie, sono gli anni Sessanta. Negli Stati Uniti viene commercializzata la pillola contraccettiva, che permette alle donne di controllare la propria fertilità in modo facile, discreto e soprattutto autonomo.
Anche in Italia la questione della donna irrompe e per la prima volta assume dimensioni di massa. Negli anni Settanta le piazze del nostro paese vengono invase dalle donne, pronte a rivendicare diritti ancora negati, come quello di divorziare o di interrompere una gravidanza indesiderata. Le battaglie per l’aborto e il divorzio sono svolte epocali. Le donne impegnate protestano instancabilmente anche per modernizzare il diritto di famiglia per giungere così a demolire uno dei più fermi alfieri della discriminazione femminile e della visione maschilista: il cosiddetto delitto d’onore, che assicurava pene ridotte agli uomini che assassinavano la moglie adultera.

Gli anni Novanta e il XXI secolo: una nuova era
Consuetudine vuole che negli anni Novanta si manifesti una nuova era per la questione della donna. Siamo in un’epoca in cui, sulla carta, uomini e donne dei paesi occidentali hanno pari diritti e pari opportunità, tanto che qualcuno parla di “società post-femminista”.
Ma le discriminazioni sono tante, soprattutto nel mondo del lavoro. Si continua a lottare perché il divario salariale tra uomini e donne venga riconosciuto ed eliminato, si evidenziano le difficoltà che le donne affrontano nella progressione di carriera e si protesta affinché venga istruita una legislazione contro le molestie sul lavoro. Inoltre, vengono rivisitate anche alcune posizioni maturate nei decenni precedenti, come la prostituzione e la pornografia. Se negli anni Settanta e Ottanta la maggior parte delle donne si schiera contro ogni forma di sfruttamento del corpo femminile, a partire dalle soglie del nuovo millennio non mancano voci più incisive, che non escludono a priori l’idea che si possa vendere il sesso per libera scelta.
Sull’onda occidentale della questione, ben presto si affiancano le prime donne islamiche e il movimento deve fare i conti con le critiche delle donne di colore deluse da una battaglia che le vede in subordine alle donne bianche. Tuttavia, tutto ciò viene smentito ben presto. Verso la fine degli anni Ottanta, l’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw inizia a parlare d’intersezionalità e indica l’intersezione di più identità sociali e le possibili oppressioni e discriminazioni derivanti da esse.
Si dà vita, in tal modo, al cosiddetto “femminismo intersezionale”. In buona sostanza, una donna di colore non subisce le stesse discriminazioni di una donna bianca, così come una donna bianca omosessuale della working class non subisce le stesse discriminazioni di una donna bianca etero, anch’essa operaia. Cultura, classe, orientamento sessuale, colore della pelle, disabilità: tutte queste intersezioni, che costruiscono l’identità di una persona, possono anche demolirla attraverso le oppressioni derivanti dall’esterno.
Già da tempo si è ravvisata la necessità di inquadrare il problema da un punto di vista sociale così come nella nostra contemporaneità se ne risentono le urgenze per affrontare ciò che la questione di genere, di status, diritti e responsabilità civile e politica ne delineano i contenuti e i limiti. Legislazioni poco consone agli accadimenti delittuosi nei confronti della donna sono dei veri e propri colabrodo in cui restano imbrigliate solo le inutili “veridicità” di parte e filtrate come acque sporche i continui e peccaminosi “spargimenti” di sangue.

Ivana Ferraro

(direfarescrivere, anno XX, n. 219, aprile 2024)
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