Anno XX, n. 220
maggio 2024
 
La cultura, probabilmente
A cent’anni dalla nascita, una ricca
indagine biografica su Italo Calvino
che fa luce sui motivi del suo scrivere
Edito da Hoepli, il saggio di Domenico Scarpa che affronta
vari aspetti della vita e delle opere del celebre autore italiano
di Marina Benvenuto
Italo Calvino nasce in Messico, a Santiago de las Vegas il 15 ottobre 1923. Fin da questo dato biografico troviamo un primo segno della natura sfuggente, talvolta inafferrabile di questo autore molto amato che ricordiamo nel centenario della nascita.
Figlio di genitori maturi per età, accomunati da una medesima, quasi ossessiva, passione per la botanica: il padre Mario si laurea a Pisa nel 1899 in scienze agrarie, la madre Eva, laureata in scienze naturali nel 1915, è la prima donna a ottenere, nel 1926, la libera docenza in questa materia, a Cagliari. Italo frequenta l’asilo infantile inglese e poi la Scuola valdese di Sanremo con un orientamento laico, socialista e massonico. Non riceve quindi a scuola alcuna formazione religiosa e subirà scherni e discriminazioni, da parte sia dei superiori che dei compagni, per questa diversità.

L’infanzia a Sanremo, nuova Recanati
Domenico Scarpa, critico letterario e docente di Letteratura italiana a Napoli, con il volume Calvino fa la conchiglia. La costruzione di uno scrittore, (Hoepli, pp. 832, € 30,00) celebra il centenario ripercorrendo la vita di Calvino in un’opera strutturata su due binari: biografico/storico e letterario/critico.
Il susseguirsi di notizie e approfondimenti ricorda le dinamiche di un quadro di Escher: un infinito rimando a situazioni, opere, incontri, letture che non seguono un fluire temporale ordinato ma collegano il passato al presente, il lavoro alle amicizie, le opere ai ricordi, un costruirsi che non è disordine, ma uno svilupparsi coerente come un mondo vegetale che disegna la sua forma.
Le opere di natura autobiografica sono rare in questo autore, rivelano una drammatica intensità, ma esposta con leggerezza, un confidare per creare equilibrio, non vano turbamento: su queste l'intervento di Scarpa è prezioso per una comprensione delle ragioni più profonde dello scrittore.
Più volte nella sua vita Calvino esprimerà una predilezione per il racconto, il bisogno di raccogliere il messaggio in una forma compatta, senza vuoti, racconti «pieni e perfetti come tante uova». Sarà soltanto Pavese e l’ammirazione per lui a convincerlo a scrivere il primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno dove la natura ligure, il bosco e l’asprezza dell’Appenino si rivelano protagoniste.
Ma è nel racconto La strada di San Giovanni, uno dei testi autobiografici, scritto nel 1962, che il bosco e la natura assumono il loro significato più intimo nel ricordo di circostanze famigliari tra l’infanzia e l'adolescenza.
Il libro esprime l’impegno dedicato all’analisi dei sentimenti più personali che con pudore austero e ligure traspaiono dalla forma concisa e curata del testo. È un brano senza tempo all’interno della sua opera perché legato a un ricordo che ha strutturato anche il suo rapporto con la letteratura.
Davide Scarpa ci presenta, per una lettura critica di questo brano, la casa di Calvino, Villa Meridiana, come la Recanati dell’autore, «come la siepe tra due opposti infiniti». Il racconto offre una revisione dell’immagine famigliare perseguita attraverso un esercizio di scrittura «carico di pietas» (è un’interpretazione attenta di Scarpa).
Italo scrittore non propone le rivendicazioni di una kafkiana Lettera al padre, ma una comprensione affettiva e gentile, che caratterizza la posizione di Calvino come autore, non solo come figlio, un impegno che struttura il suo scrivere.
La figura paterna è immersa nella passione per la terra che viene coltivata con grande fatica fra il mare e un bosco incombente che minaccia il degradare delle terrazze scavate sulla collina.
«Lui del mondo vedeva solo le piante», è la frase più amara che ci coglie di sorpresa mentre il padre si inerpica per raggiungere le fasce di San Giovanni in un percorso forzato avviato all’alba, con i due figli che lo aiuteranno a ritornare con le ceste colme di verdure e «un coniglio stecchito».
Il ritorno, caricato di pesi come «un cammello», è la parte del viaggio preferita dal giovane: il cesto da trasportare lo costringe a concentrarsi sullo sforzo fisico e lo libera dalla fatica di osservare i comportamenti del padre, la sua urgenza nell’avanzare; il percorso di ritorno è in discesa, verso il mare e la città. In questo rientrare a casa non c’è indifferenza, ma subentra la valutazione morale dell’impresa come gesto di tenerezza verso il padre.
Nella cura dello stile Calvino elabora una forma equanime, mesta, davvero di pietas sincera che salva dall’oblio lo sguardo del bambino, giustifica le reazioni umorali del padre e ne riconosce l’affanno per ingentilire una terra avara che logora chi la vuole far fruttificare nei suoi contrasti tra terrazze, salsedine e bosco.
«In questo seguitare una muraglia...» ritorna alla memoria Montale nella rappresentazione di una barriera, di un limite, un’antitesi alla «siepe» che si affaccia su un altrove che il padre respinge. Un seguitare verso la terra di San Giovanni che il bambino comprende come un profondo sentimento del dovere, ma anche come un’assenza di fantasia e di speranza.
In questo coltivare la terra senza requie si scorge un’eredità «laica, massonica» come dichiarerà Calvino che riconosce l’attitudine onesta e volonterosa del padre che tenta di arrestare l’espandersi della coltivazione a garofano; vuole salvare una biodiversità che richiede troppo impegno per essere remunerativa. Il figlio intuisce questo affannarsi, lo percepisce come giusto, se ne fa carico, e nella vita rinnova un’attitudine al lavoro austero, critico, nella ricerca della forma impeccabile che paradossalmente è la misura della sua sensibilità, del suo tributo al padre.

La Resistenza: una narrazione tra dimenticanza e memoria
L’esperienza di Calvino, giovanissimo partigiano, ci è restituita nella sua drammaticità a metà dell’opera di Scarpa, in occasione della pubblicazione di un articolo del 1974 sul Corriere della Sera: Ricordo di una battaglia. È una descrizione di un’azione di guerra tinta dalle atmosfere di una riflessione «a metà del cammin di nostra vita», la modalità del ricordo è qui un bilancio esistenziale.
Calvino descrive un percorso tra le alture per raggiungere Boiardo, il paese previsto per il confronto contro i fascisti, ma la sua memoria si attarda sul percorso nel bosco per raggiungere la meta. Infatti, ci descrive la fatica del procedere del piccolo gruppo isolato dagli altri, in una vegetazione ostile che lacera le vesti, con scarpe inadatte: un gruppo mal armato con vestiti improbabili di diverse fogge e colori. L’incedere lento appare preludere alla battaglia perduta e mai raggiunta. «È "Giovinezza" che cantano». Solo il risuonare della canzone li avverte del pericolo e al medesimo tempo della consumata sconfitta. Calvino confessa la sua difficoltà nel ricordare i diversi momenti dell’azione: immersi nel bosco non giungeva una voce da parte amica.
Calvino si affatica nel tentativo di ricostruire gli eventi, ricorda il canto di un gallo, gli spari, ma non l’azione, gli ordini, neppure i volti dei compagni, né le loro parole. Solo la voce nel canto del nemico li avverte di ritirarsi, di allontanarsi dal paese mai raggiunto. Il ricordo torna invece a fluire sul resoconto ricevuto da altri della battaglia.
L’isolamento del gruppo nel bosco, l’assenza altrui è espressione di un non senso del vivere; Calvino scrivendo ritrova i sentimenti provati, la loro importanza sovrasta gli eventi e li sbiadisce: il bosco diventa favola, metafora del vivere, perché l’azione in quel luogo è un evento letterario, non di guerra, e le emozioni restituite al lettore ci rendono lo scrittore amico, compagno della sua fatica.
Il resoconto (ricevuto da terzi) degli eventi della battaglia mai raggiunta scorre invece limpido, giornalistico. Ma l’esperienza vissuta è nel bosco, nella memoria strappata, disorientata: nel bosco l’azione partigiana prende un significato universale, rimanda a un’esperienza di resistenza che restituisce valore all’assurdo degli accadimenti.
Nella sua ricerca Scarpa vuole approfondire le ragioni di questo dimenticare, cita allora uno degli ultimi articoli di Calvino, Dimentica e ricorda, del 1985, e acutamente osserva che per Calvino il ricordo meritevole è carico di potenzialità morale: «Il vero compito dell’intellettuale è quello di aiutare a ricordare il dimenticato, ma per far questo deve prima dimenticare ciò che ricordiamo troppo: idee ricevute, parole ricevute, immagini ricevute, che ci impediscono di vedere e pensare e dire il nuovo».
Il racconto dell’esperienza da partigiano è un altro ritorno a San Giovanni, il bosco come limite non coltivabile, come terreno da caccia del padre, come luogo dove l’umanesimo è sconfitto: lo smarrimento nel bosco diventa un dar voce a un imperativo etico assunto dall’infanzia, un bosco/mondo che non lascia trapelare alcun conforto umano, a cui forse solo l’immaginazione può dare un senso. L’immaginazione, nell’impegnato esercizio letterario, può riscattare l’esperienza della sofferenza.

La costruzione di un’estetica poetica
Della botanica Calvino non volle apprendere dal padre alcun termine, anche se subì il fascino dei nomi latini ascoltati nell’infanzia. Ma, come il padre, inventò un territorio di cui prendersi cura, un luogo di storie con una nomenclatura fantastica quanto i personaggi de Il Barone rampante e Le Cosmicomiche poi.
Nella ricostruzione di Scarpa troviamo una conversazione di Calvino del 1978: «Ciò che scrivo devo giustificarlo, anche di fronte a me stesso, con qualcosa non solo individuale. Forse perché vengo da una famiglia di credo laico e scientifico intransigente, la cui immagine di civiltà era simbiosi umano-vegetale. Sottrarmi a quella morale, ai doveri del piccolo proprietario agricolo, mi ha fatto sentire in colpa. Il mio mondo fantastico mi sembrava non abbastanza importante».
Un altro spunto prezioso Scarpa lo seleziona da un’intuizione chiarissima di Pasolini: «Calvino non inventa nulla tanto per inventare: semplicemente si concentra su un’impressione reale - uno dei tanti choc intollerabili, che meriggi o crepuscoli, mezze stagioni o canicole, ci causano negli angoli più impensati o più famigliari delle città note o ignote in cui viviamo - e pur sentendolo in tutta la sua qualità struggente di sogno, lo analizza: i pezzi separati, smontati, di tale analisi, vengono riproiettati nel vuoto e nel silenzio cosmico in cui la fantasia ricostruisce appunto i sogni».
Il lavoro di Scarpa prosegue la ricerca attraverso un laboratorio di indizi, un procedere che può ricordare le tecniche di redazione dello stesso Calvino, un sedimentarsi apparentemente disomogeneo di materiali che nel loro sovrapporsi rivelano la personalità meno esposta del poeta, quelli della sua costruzione intima, «primordiale», antica quanto l’origine di Qfwfq.
Così Scarpa ci propone Le Cosmicomiche, come una serie di episodi autobiografici raccontati da Qfwfq, un mollusco preistorico che costruisce la sua conchiglia creando una forma a spirale, diversa da se stesso, una conchiglia che racchiude la vita nel suo affannarsi, la comprende eppure la nasconde con una forma nuova, per salvarla. Questa in fondo è l’interpretazione della letteratura.
Ed è un giudice severo Calvino nella costruzione della sua conchiglia, austero più del padre, sensibile più del mollusco nudo sugli scogli battuti dall’onda del mar Ligure.

Le sei lezioni americane come testamento letterario
Anche le Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, manifestano un’esigenza autobiografica. Calvino svela una profondità di ricerca come raramente aveva concesso, forse perché affascinato dal pensiero di una platea di giovani studenti, forse per la speranza di fondare una paternità letteraria.
Confiderà la fatica per redigere le Lezioni a un amico, Pietro Citati: un anno di lavoro per costruire il suo pensiero dalla Leggerezza alla Consistency – sono i titoli della prima e dell'ultima lezione – e il libro di Scarpa è nuovamente di aiuto per comprendere questa ultima fase di creatività.
Scarpa considera le Lezioni americane una proposizione di intenti, uno sguardo sul futuro, e al contempo desiderio di tramandare un’esperienza di lavoro di tutta la vita, per una comunicazione racchiusa nelle poche ore della didattica. Il lavoro sulle lezioni per Harvard conferma l’impegno morale di Calvino nel ruolo che affida alla letteratura.
Con una logica ermeneutica chiede alla platea di riflettere sulle finalità del Decameron: cosa collega le novelle alla cornice della peste su Firenze, costruita dal Boccaccio? «Il tessuto connettivo è morale» indica Calvino. Le riflessioni sull’etica si rincorrono nelle lezioni e la profondità di Calvino non può esimerlo dall’interrogarsi sulle ragioni dello scrivere: una poetica che rimanda a una sorgente di verità, di tensione per un bene comune, condiviso grazie alla bellezza della parola nell’espressione artistica. L’arte è mezzo, non è estetica fine a se stessa, ma persegue una finalità: «Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione».
Nella prima lezione, Leggerezza, Calvino ci propone due attitudini necessarie allo scrivere, «la delicatezza d’animo» e la persistenza di «valori morali investiti nelle tracce più tenui». La letteratura infatti è un sopravvivere al di là della pesantezza del mondo, «quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero di automobili arrugginite».
La leggerezza è dunque ottenuta coltivando la prospettiva umanistica, Calvino ce la rappresenta in modo cinematografico, con un’immagine ancora di Boccaccio, dal Decameron: Cavalcanti, simbolo di una poetica nuova, si libera con un salto – «sì come colui che leggerissimo era» – da una brigata fiorentina che lo aveva inseguito per schernirlo .
È per l’ultima incompiuta lezione (la sesta, sulla consistency) che l’interpretazione di Scarpa suggerisce un approfondimento ulteriore per offrire al lettore una rappresentazione degli intenti di Calvino. Scarpa propone di considerare un testo di Poe, Eureka che effettivamente Calvino cita anche nelle Lezioni. Il testo Eureka è un trattato cosmologico, un’intuizione poetica sulla cognizione del cosmo come costruzione di geometrie simmetriche che in sé racchiudono una verità poetica, una coerenza intrinseca, una “consistency” appunto che è “verità” secondo Poe.
«Calvino non teme la metamorfosi – osserva Scarpa – ed è come dire che non arretra dinnanzi alla metafisica..., benché poi dissimuli tanto la sua propensione verso la metafisica quanto la paura che il mistero gli incute... sono profondità che in lui dovremmo imparare a riconoscere perché costruiscono il suo valore».
In effetti nelle Lezioni Calvino si dedica a cercare la sorgente dell’immaginazione tra fisica e metafisica, tra concezioni filosofiche e psicoanalitiche. Scriverà queste parole mai lette: «ho sempre cercato nella immaginazione un mezzo per raggiungere una conoscenza extraindividuale, extrasoggettiva... l’immaginazione come partecipazione alla verità del mondo».
La ricerca della consistency, nell’ultima lezione, è un evocare il tramonto di un’interpretazione laica del mondo, un andare oltre il padre, un cercare la poesia, una verità, oltre la siepe.
«È un percorso funambolico sul vuoto e a un certo punto del suo attraversamento [Calvino] cade, nel senso che muore».
La sesta lezione che Calvino pensò di finire ad Harvard rimase incompiuta.

Marina Benvenuto

(direfarescrivere, anno XX, n. 216, gennaio 2024)
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