Anno XX, n. 224
ottobre 2024
 
La cultura, probabilmente
Lo scopo principale dell’autoritarismo
cinematografico durante il Ventennio
fu la continua celebrazione del regime
Edito da Pellegrini, un saggio in cui si mostra come il cinema
fu uno degli strumenti decisivi per la propaganda fascista
di Mario Saccomanno
Durante il ventennio fascista la macchina cinematografica divenne uno strumento fondamentale per accrescere il consenso tra la popolazione. I molteplici cambiamenti radicali che segnarono gli anni del regime portarono Mussolini a mutare più volte il senso della storia e, da lì, il modo di raccontarla anche e forse soprattutto tramite i film.
Le creazioni cinematografiche rispondevano in primo luogo al bisogno di fascistizzare in tono sempre più marcato gli italiani. Così, esaltare la gloria e i gesti degli eroi del passato e del presente significava giustificare l’operato del fascismo e del suo leader.
Dunque, le pellicole ebbero un ruolo divulgativo e celebrativo. Si formò un vero e proprio autoritarismo cinematografico segnato da diverse sfaccettature. A discuterne in dettaglio è Andrea Giuseppe Muratore nel testo L’arma più forte. Censura e ricerca del consenso nel cinema del ventennio fascista (Pellegrini Editore, pp, 162, € 18,00)
Soprattutto, l’autore chiarisce a più riprese l’importanza che ebbe la storia per il fascismo. Del resto, è facile rilevare come anche la produzione cinematografica dell’epoca risultò essere caratterizzata da film storici o in costume. Dunque, nelle pagine del libro, Muratore fa comprendere a fondo come questo modo d’agire si legasse a stretto giro a quella propaganda indiretta che connaturò gli anni mussoliniani. Di sicuro, molte sfumature cinematografiche dell’Italia fascista rilevano una americanizzazione delle pellicole e una sorta di autocensura da parte di diversi registi su cui occorre soffermarsi per comprenderne a fondo le cause.

L’obbedienza al fascismo doveva essere totale
Nel testo vengono esaminati molteplici elementi che portarono alla nascita e al consolidamento del fascismo. Ovviamente, fulcro di questo cambiamento fu Benito Mussolini che nel marzo del 1919 fondò i Fasci italiani di combattimento, movimento che due anni dopo, nel 1921, divenne Partito nazionale fascista (Pnf).
Dopo la conquista del potere avvenuta l’anno successivo, con la Marcia su Roma, il partito poté contare sull’ottenimento di poteri speciali tramite cui agire nella Penisola. In breve tempo, una volta che si conclusero le elezioni del 1923, in cui il Pnf ottenne la maggioranza tramite brogli e violenze elettorali, il fascismo gettò la maschera diventando vero e proprio regime autoritario.
In merito, Muratore non manca di elencare le truci variazioni che scandirono la vita politica e sociale italiana. Occorre riportare l’intero stralcio presente nel libro per capire a fondo in che contesto presero corpo e vennero diffuse quelle pellicole su cui il testo si concentra ampiamente: «Il duce era responsabile soltanto di fronte al re; il parlamento venne svuotato di ogni potere; vennero soppressi il diritto di sciopero e la libertà di stampa; furono sciolti tutti i partiti tranne il PNF (Partito Nazionale Fascista); furono promulgate le leggi fascistissime; furono soppresse le organizzazioni sindacali, perseguitati gli antifascisti, istituita l’OVRA (Organizzazione Volontaria per la Repressione dell’Antifascismo), ripristinata la pena di morte, nelle elezioni comunali sindaco e consiglio comunale vennero sostituiti con la nomina del podestà e della Consulta».
Non solo, accanto a quanto riportato occorre tenere in forte considerazione come tutto il processo di formazione educativa si basò su un principio rispondente a tre verbi: credere, obbedire e combattere. Così facendo, ogni individuo divenne un cittadino-soldato pronto a rispondere a ogni direttiva imposta dal Duce. Per quanto affermato, si comprende facilmente come si trattò di una obbedienza totale.

Il cinema durante il fascismo: uno strumento usato per comunicare alle masse ideali e valori
Le difficoltà economiche persistenti e la fame di terra, oltre che il bisogno di presentarsi al mondo come un imperialismo, portarono, com’è noto, all’occupazione dell’Etiopia. Si trattò di una guerra che, ovviamente, Muratore non manca di definire «sanguinosa, brutale, consumata anche mediante l’uso di gas e bombardamenti indiscriminati».
Nel testo sono presenti anche altre molteplici e accurate disamine sugli altri momenti cruciali delle vicende del Ventennio. Infatti, ampio spazio è riservato ai Patti Lateranensi, alle Leggi razziali, che vengono definite perentoriamente «il punto più basso della politica praticata dal regime fascista». Per ovvie ragioni, figurano anche le vicende legate alla Seconda guerra mondiale.
Avere ben in mente gli snodi principali del fascismo permette di capire a fondo il ruolo che venne ricoperto dal cinema in quegli anni. Come si sarà compreso, si trattò di uno strumento fondamentale utilizzato dal regime per diffondere ideali e valori.
Muratore chiarisce come il cinema della Penisola si trovasse in piena crisi all’inizio degli anni Venti. Infatti, in quel preciso momento storico la produzione italiana non reggeva il confronto con le altre opere internazionali prodotte da registi del calibro di Fritz Lang, Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e Charlie Chaplin.
È in questo contesto che nel 1923 nacque l’Unione cinematografica educativa (Luce), «finalizzata alla realizzazione di documentari e cinegiornali, e alla proiezione degli stessi nelle sale cinematografiche». Nei vent’anni successivi la produzione di materiale inneggiante a una propaganda patriottica fu immensa. Ben tremila filmati vennero diffusi con l’intento di diffondere i trionfi dell’Italia mussoliniana.
Del resto, sin dal 1922 Mussolini comprese come il cinema fosse l’arma più forte attraverso cui poter parlare a chiunque. Così, negli anni Venti, i film mostrarono soprattutto una realtà lungamente distante dalla retorica aggressiva fascista. Infatti, pellicole quali Il grido dell’aquila o Sole ebbero il compito di diffondere e valorizzare i lavori delle bonifiche realizzati nell’Agro Pontino. Invece, produzioni come Quattro passi fra le nuvole, Strapaese o Selvaggio diffusero l’immagine del buon contadino.
Fu negli anni Trenta che il cinema italiano assunse una caratteristica ben precisa: offrire l’immagine di un’Italia pronta a risollevarsi dalle annose conseguenze del primo conflitto bellico mondiale. In tal senso, gli interventi divennero organici e gli obiettivi «dirigistici, protezionistici e di sostegno».
Da questo punto di vista, un vero e proprio «manifesto del cinema di propaganda» fu la pellicola Vecchia Guardia di Alessandro Blasetti. All’interno, a essere celebrata è la Marcia su Roma.
In questa seconda fase, tramite il cinema si esaltò il colonialismo italiano, si parlò di una missione civilizzatrice in Africa e si cominciò una propaganda indiretta tramite una produzione di finzione, velata. Infatti, la divulgazione palese dei tratti del regime venne considerata da Luigi Freddi, figura preminente della cinematografia fascista che guidò la Direzione generale della cinematografia, troppo esplicita e dannosa. Il tutto, come presto si farà notare, si rivolse anche e soprattutto a favore del modello americano, segnato dalla spettacolarità e dall’efficacia narrativa.

Un legame principalmente industriale ed economico
Per il fascismo rinunciare al cinema fu impossibile. Si trattò della macchina del consenso, del «veicolo di comunicazione per eccellenza». Non sorprende allora la volontà mussoliniana di far nascere Cinecittà dalle macerie di Cines. Ancora, sempre nella prospettiva di vedere il cinema come arma più forte nacque l’Istituto internazionale della cinematografia educativa. Sono solo due esempi che permettono di comprendere come, proprio attraverso il cinema, «il fascismo cercò di costruirsi una nuova immagine da diffondere in tutto il mondo».
A questo punto è importante far notare come sempre più «ai cinegiornali restava la propaganda e al cinema l’intrattenimento e l’evasione». Di conseguenza, si può affermare che almeno nel cinema poté restare qualche autonomia, in particolare se si utilizza come termine di paragone la Germania nazista o i Paesi sovietici, laddove la censura era ampiamente radicata.
Muratore spiega nei dettagli come il legame tra cinema e fascismo divenne sempre più marcato dal punto di vista industriale ed economico. La volontà fu quella «di evidenziare la grandiosità della produzione cinematografica italiana attraverso il colossal per fare concorrenza alla sfarzosità dei film prodotti da Hollywood».
Si trattò di un cinema ben distante dalla realtà. Le correnti culturali venivano emarginate e ogni artista veniva tollerato soltanto nel caso in cui la sua produzione mostrava «simpatia per l’estetica fascista», discostandosi dalla narrazione degli umori che contrassegnavano il vivere quotidiano.
Da qui, l’autore chiarisce come ogni regista dovette fare una scelta. Si trattò di indossare la camicia nera e l’ideologia fascista nella produzione cinematografia o di ripiegare sulla commedia rosa e sul sentimentalismo.
Dalla scelta ne derivarono il teatro dialettale, che tese a rappresentare il mondo piccolo borghese, e il melodramma, con quel carico di film storici e in costume intrisi di vuota propaganda tesa a inneggiare l’Impero romano. Si rinvengono facilmente anche una serie di commedie leggere, di storie sentimentali a lieto fine, come l’acclarato Gli uomini, che mascalzoni! che diede il la al filone dei telefoni bianchi, nome dovuto al colore dei telefoni utilizzati dalle dive nei film di quel periodo.

Una potente e organica macchina della propaganda
Soltanto all’inizio degli anni Quaranta, in particolare con la pellicola Piccolo mondo antico di Mario Soldati, cominciò a intravedersi un «sentiero di indipendenza artistica» che esplose pienamente in seguito, una volta che cadde il regime fascista e si concluse la Seconda guerra mondiale.
Proprio questo aspetto consente a Muratore di chiarire come l’Italia fascista mortificò enormemente gli artisti, i quali vissero «imbavagliati e lontani dalla realtà, riconosciuta come elemento assolutamente indispensabile per produrre capolavori». Del resto, il fascismo, riportando un altro stralcio fondamentale del testo, «ha posto in essere volontà politica, strutture governative, mezzi di ogni genere, uomini e risorse finanziarie, che nel loro insieme andavano a costituire una potente e organica macchina della propaganda, per procurarsi il massimo consenso possibile da parte del popolo italiano».
Dunque, il popolo italiano venne modellato attraverso leggi, indottrinamento e una feroce repressione che poteva essere sia fisica, sia mentale. Dal punto di vista culturale basta anche soltanto far riferimento al Ministero della cultura popolare, attivato nel 1937, che ebbe come compito il controllo della vita culturale, politica e sociale. In particolare, l’attenzione venne rivolta principalmente alla stampa.
Ritornando al cinema, a partire dal 1925 fu sottoposto alla verifica del regime tramite la creazione dell’Istituto Luce. Eppure, le produzioni nazionali subirono raramente la censura. Questo aspetto è spiegato attraverso la scelta di evitare i blocchi attraverso l’assecondamento, che poteva avvenire anche in modo indiretto, delle condotte censorie.
Si trattò di una vera e propria autocensura che Muratore esprime riportando un’affermazione emblematica di Cesare Zavattini: «C’era una naturale tendenza a tenere dentro quello che non si poteva fare».
Occorre ribadire dunque che il cinema fascista fu soprattutto capitalistico. È su questo elemento principale vennero innestati tutti gli altri caratteri fondanti del regime. Di questa americanizzazione ne sono testimonianza quei generi passati in rassegna in precedenza, dal melodramma alla commedia, passando per i film di guerra.
Dunque, a conclusione, l’attenta disamina dei numerosi aspetti legati alla produzione cinematografica dell’Italia fascista compiuta da Muratore permette di cogliere a fondo i tratti principali di pellicole fortemente condizionate nei temi, necessariamente epurate da molteplici elementi che connaturavano la quotidianità del tempo.

Mario Saccomanno

(direfarescrivere, anno XIX, n. 207, aprile 2023)
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