Anno XX, n. 222
luglio 2024
 
La cultura, probabilmente
Il mito, sotto mentite spoglie, continua
a esercitare un ruolo determinante
anche nella società contemporanea
Per Nep edizioni, Palumbo evidenzia molteplici elementi utili
a comprendere pienamente i tratti della narrazione mitica
di Mario Saccomanno
Il mito è un tipo di racconto che rappresenta una vera e propria costante nella storia dell’uomo poiché capace di esternare dimensioni antropiche di vitale importanza.
I modi di intendere le narrazioni mitiche sono molteplici. Sta di fatto che, accluderlo completamente e senza riserve nella cerchia delle fiabe, delle favole o delle leggende, significa recidere una quantità enorme di sfumature che risultano decisive per la comprensione accurata delle sue caratteristiche.
Nel corso del tempo, il mito ha saputo modellarsi senza tregua a tutte le esigenze mostrate dalla civiltà: per esempio, non di rado si è ricoperto di sacralità o di profetismo. Inoltre, facendo leva sui tratti più disparati dell’esistenza umana – intesa sia dal punto di vista del singolo individuo, sia in ogni forma di vita associata – ha toccato i temi più complessi, diventando finanche ponte capace di condurre dall’immanenza alla trascendenza.
Così, inevitabilmente, nella società moderna e contemporanea il mito ha continuato e continua a sedurre e a destare interesse. Eppure, nonostante questo, si può dire che oggigiorno la sua lucentezza sia coperta da un velo che, soprattutto in determinati ambiti, non consente con semplicità di comprenderne a fondo la portata.
È quanto spiega acutamente Miriam Palumbo nel suo libro Il mito in carta (Nep edizioni, pp. 136, € 25,00). Per farlo nel migliore dei modi, nei vari capitoli che conformano il testo, l’autrice offre in primo luogo un excursus storico-filosofico capace di gettar luce proprio sulle diverse sfumature del mito.
Dall’analisi delle sue origini storiche, antropologiche e sociali si giunge al legame intessuto sovente con la forma artistica, campo in cui il mito tuttora conserva intatto il fascino che lo contraddistingue e lo esalta.
Palumbo giunge a chiarire come ci sia bisogno di continuare a diffondere questo genere di narrazioni. Per farlo, occorre essere in grado di saper insegnare le peculiarità del mito. Per questo motivo, le pagine del libro si legano a stretto giro e confluiscono nei metodi di insegnamento capaci di stimolare l’attenzione e l’interesse.

La lingua scritta ha modificato irreversibilmente lo status del mito
Per un arco di tempo smisurato, la caratteristica peculiare del mito fu la sua diffusione orale. I contenuti vennero diffusi di bocca in bocca accompagnando innumerevoli generazioni umane.
Circoscrivendo questo aspetto soltanto all’antica Grecia, si nota come il fitto patrimonio culturale venne tramandato dagli aedi e dai rapsodi. Entrambi furono recitatori che diffusero poemi. La differenza stava nel fatto che i primi, i rapsodi, divulgavano in canti e versi gesta belliche contenute in opere quali l’Iliade o l’Odissea. Al contrario, gli aedi declamavano o intonavano le proprie creazioni.
È una difformità radicale che sottende un aspetto decisivo che Palumbo non manca di discutere a lungo nel testo che si sta analizzando. Nello specifico, si tratta di quanto avvenne dal V secolo a.C. in poi. Infatti, in quel periodo la polis democratica raggiunse uno sviluppo tale, al punto che si sentì, come afferma l’autrice, «l’esigenza di leggi scritte e razionali».
In questo contesto gli aedi cominciarono a lasciare il posto ai rapsodi che, chiarisce Palumbo, furono determinanti per il «passaggio dal canto alla recitazione e soprattutto dalla trazione orale a quella scritta, raccogliendo i vari racconti sparsi in poemi».
Così, prese campo la rielaborazione scritta, un vero e proprio nuovo linguaggio espressivo che, in un certo senso, si oppose sin da subito alla tradizione orale andando gradualmente a sostituirla del tutto. Da qui si giunse alla divisione ben marcata, che Palumbo analizza a fondo, tra Mythos e Logos dove, volendo sempre rifarsi alle parole dell’autrice, «quest’ultimo non rappresenta solo un’espressione verbale, ma anche una razionalità dimostrativa».
Nel libro viene indicato come il logos, tramite una fitta serie di indagini e studi facenti leva sul filtro dell’intelligenza, abbia spogliato la parola e il mito da quella «capacità di affascinare e suggestionare gli ascoltatori e il grande potere di imporsi agli altri».
In altri termini, la narrazione mitica cominciò a cedere il passo alla ragione e alla logica, perdendo la sua forza e diventando quasi una semplice favola. Quel senso di stupore, quell’incantesimo basato sulla diffusione orale cedette il passo al pensiero logico-razionale e alla filosofia.

Il legame con la filosofia e la nascita della mitologia
Lo stretto legame tra mito e filosofia può essere riassunto tramite la produzione dialogica platonica. Del resto, non a caso Palumbo nel suo scritto si sofferma ampiamente sul celebre filosofo greco. Nel farlo, mostra come in svariati punti nevralgici della sua ampia produzione la forma mitica appaia indispensabile. La motivazione è data dalla capacità del mito di sopperire a molteplici difficoltà espositive oppure al sopraggiungere di limiti razionali nel procedere della maieutica socratica.
L’esempio riportato nel testo è il Mito della caverna, contenuto nel settimo libro della Repubblica. Infatti, la narrazione platonica risulta efficace per la comprensione dei gradi del processo conoscitivo. Non solo: tramite l’avvalersi del mito, quanto esposto diventa più suggestivo.
Man mano, sottolinea l’autrice, la filosofia, così come la storia, ha fatto sempre più leva su una conoscenza solida, su un approccio razionale che ha rifiutato categoricamente il meraviglioso, ritenuto sempre più fuori posto nella produzione scritta.
Così, sono cominciate a proliferare diverse analisi e chiavi interpretative legate ai miti. Avvalendosi proprio della forma scritta, le conclusioni poterono essere archiviate e consultate fedelmente in ogni momento. Da qui, si cominciò a parlare di Mitologia, cioè di quella «articolata disciplina sulle narrazioni mitiche e il complesso delle credenze dalle quali, grazie a sviluppi e approfondimenti specifici, è possibile riuscire a estrarre la componente culturale e rappresentativa di un popolo o di una società».
Palumbo illustra come nel corso dei secoli la separazione fra pensiero razionale e mitologico si sia attenuata. Così, i racconti mitici hanno cominciato ad assumere diversi caratteri. Volendone evidenziare un esempio legato ancora alla dimensione filosofica, si pensi all’utilizzo sempre più massiccio dell’allegoria in opere di svariati pensatori.
Fare leva su questa figura retorica portò a introdurre la teoria del velamen. Quest’ultima è da intendere come un occultamento della verità che non può essere divulgata a chi non ne è meritevole. Così, il mito cominciò a diventare con forza «veicolo di un messaggio “codificato” riservato soltanto a pochi».

La mitologia si fa scienza
Chiamando in causa autori del calibro di Marsilio Ficino, Pico della Mirandola o Giambattista Vico, Palumbo mostra le prospettive storico-antropologiche assunte dal mito nel corso dei secoli.
Inoltre, l’autrice sottolinea come tra il 1850 e la fine del XIX secolo la mitologia sia diventata una vera e propria scienza, meritevole di essere «studiata e analizzata nelle cattedre universitarie come Mitologia Comparata».
Se nelle fasi precedenti diversi pensatori riposero la loro attenzione su che cosa potesse spingere gli uomini a scrivere miti, in questo nuovo contesto l’analisi si focalizzò sulla natura greca e umana, sulle loro perversioni. Così, la mitologia divenne «scienza dell’orrido e dello scandalo».
Ancora, nel Novecento le problematiche sul mito accrebbero e lo scandalo e l’assurdità della narrazione mitica cedettero il posto a una visione che vide queste forme di racconto sfidare l’intelligenza scientifica. Proprio per questo motivo, chiarisce l’autrice nel testo, la scienza dovette accettare il confronto «per comprendere quel diverso che è il mito e incorporarlo nel sapere antropologico».
Le scuole di pensiero che si formarono furono svariate. Le ricerche sul mito possono essere ricondotte alle teorie simbolistiche, a quelle funzionalistiche o a quelle strutturalistiche, le cui sfumature non mancano di essere trattate in dettaglio nel testo.
Senza alcun dubbio, quanto esposto nel libro fa capire che per comprendere a fondo l’importanza di un mito occorre tenere in considerazione una quantità innumerevole di elementi, anche – e forse soprattutto – quelli meno in vista. Dunque, si tratta di considerare non solo le vicende esposte nel dipanarsi della narrazione, ma occorre badare al contesto storico, filosofico, religioso e culturale, oltre che dare molta importanza ai rimandi e ai caratteri simbolici che il mito contiene.

L’insegnamento come arte
Palumbo passa in rassegna anche i tratti caratteristici del «vasto mondo delle religioni». A ben vedere, il mito, prim’ancora di diventare un genere letterario oppure prima di offrire testimonianze importanti di un determinato contesto storico, fu «un esempio delle gesta compiute da eroi e divinità».
Così, dalla narrazione mitica si giunse gradualmente alle religioni odierne più praticate. Per comprendere come l’approdo religioso odierno contenga anche diversi tratti intermedi del percorso, cioè anche alcuni caratteri dei miti, risulta indispensabile soffermarsi sulle caratteristiche che mostrano religioni quali, per esempio, il cristianesimo, l’induismo o l’ebraismo.
Nel testo risulta chiaro come, vivendo ancora oggi «sotto mentite spoglie», il mito continui a rappresentare il fulcro della civiltà umana. Gli svariati racconti, da quelli riguardanti l’origine e la creazione, passando per quelli sugli eroi e sulle storie pregne di metamorfosi, come già affermato in precedenza, conservano il loro fascino principalmente tramite il forte legame intessuto con la forma artistica.
Non a caso, le pagine del testo sono ricolme di una serie di sculture, mosaici, dipinti, locandine di film, copertine di libri e fumetti che mettono in luce come il mito, sotto varie forme artistiche, sia ben presente nelle società contemporanee.
A conclusione, Palumbo lancia una sorta di sfida: occorre saper insegnare i tratti del mito alle nuove generazioni. L’apparente difficoltà data da un mondo in continua mutazione può essere ovviata tramite l’utilizzo di metodi di insegnamento «sperimentali e innovativi» in grado di stimolare attenzione e interesse. Così, l’acquisizione di diverse nozioni, nonché i contenuti dei miti più celebri, possono avvenire anche tramite il divertimento, la creatività e l’arte.
Per questo motivo, non sorprendono le ultime pagine del testo dedicate alla comprensione di come l’attenzione possa essere stimolata e di quali processi conducano a ricordare e apprendere qualcosa in modo chiaro e duraturo.

Mario Saccomanno

(direfarescrivere, anno XVIII, n. 202, novembre 2022)
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