Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La cultura, probabilmente
Le finestre sui cortili: cinematografia,
letteratura e immaginazione.
Tutto questo è Guelfo Civinini
L’appuntamento sugli “scrittori sommersi” questa volta
analizza la tecnica della messa in scena narrativa
di Massimiliano Bellavista
Continuano gli appuntamenti della rubrica sugli “scrittori sommersi”, autori moderni e contemporanei dimenticati dai più nonostante la loro importante produzione letteraria. Abbiamo provato a esplicare e chiarire le intenzioni di questa ricerca in questo articolo.
Sono stati poi pubblicati gli articoli dedicati alle opere di Daniele Del Giudice (www.bottegascriptamanent.it/?modulo=Articolo&id=2348&idedizione=164), Laura Mancinelli (www.bottegaeditoriale.it/lacultura.asp?id=197) e Raffaello Brignetti (www.bottegaeditoriale.it/lacultura.asp?id=198).
L’analisi del mese è dedicate a Guelfo Civinini.


Una corte. Delle finestre.
«That wasn’t my fault, that wasn’t the idea. The idea was, my movements were strictly limited just around this time. I could get from the window to the bed, and from the bed to the window, and that was all. The bay window was about the best feature my rear bedroom had in the warm weather. It was unscreened, so I had to sit with the light out or I would have had every insect in the vicinity in on me.
I couldn’t sleep, because I was used to getting plenty of exercise. I’d never acquired the habit of reading books to ward off boredom, so I hadn’t that to turn to. Well, what should I do, sit there with my eyes tightly shuttered? Just to pick a few at random: straight over, and the windows square, there was a young jitter-couple, kids in their teens, only just married. It would have killed them to stay home one night. […] The next house down, the windows already narrowed a little with perspective.
There was a certain light in that one that always went out each night too. Something about it, it used to make me a little sad. There was a woman living there with her child, a young widow I suppose. I’d see her put the child to bed, and then bend over and kiss her in a wistful sort of way. She’d shade the light off her and sit there painting her eyes and mouth. Then she’d go out. She’d never come back till the night was nearly spent – Once I was still up, and I looked and she was sitting there motionless with her head buried in her arms. Something about it, it used to make me a little sad. The third one down no longer offered any insight, the windows were just slits like in a medieval battlement, due to foreshortening».
Nel 1942 lo scrittore Cornell Woolrich scrive usando lo pseudonimo di William Irish il racconto It Had to be Murder, che nel 1944 fu rinominato Rear Window (La finestra sul cortile) e divenne l’omonimo, celeberrimo capolavoro di Alfred Hitchcock.
Il racconto colpì Hitchcock per vari motivi, ma soprattutto per un aspetto assai peculiare, ovvero le caratteristiche di ambientazione, la maestria che l’autore (anch’esso tra l’altro ormai un “sommerso” di lingua inglese) ha nello sprigionare una storia in uno spazio ristretto.

Un cortile. Delle finestre
Se infatti ogni racconto in letteratura ha bisogno di adeguati accorgimenti tecnici e narrativi atti a rendere possibile e credibile la sua “messa in scena” nella mente del lettore, è vero anche che la medesima letteratura ha una certa tendenza a soffrire di claustrofobia. Insomma, è piuttosto difficile conseguire esiti narrativi felici se tutta la storia si svolge in uno spazio ristretto. Non che non ci si riesca: Baudelaire, Maupassant, Leopardi, Pascoli, Zola, Proust, Woolf, Montale, Conrad son tutti li già pronti a smentirci in una climax che ci stringe progressivamente in una tenaglia che va dalla città di Balzac passando per la casa in Madame Bovary in Flaubert fino alle stanze a misura di personaggio caratteristiche di Ibsen, per arrivare infine all’asfittico pertugio dell’io in Kafka.
Ma è comunque raro, e in ogni caso degno di nota, perché non è assolutamente facile. Una buona storia è come un’esplosione, è difficile contenerla, confinarla, senza danni. È come immaginare di lanciare un piccolo petardo oppure provare a chiuderlo nel pugno quando esplode. Gli effetti sarebbero, come si sa, ben diversi.
Ora accade che un grande esempio di questa tecnica narrativa lo abbia scritto nel 1937, cinque anni prima di Woolrich, un nostro autore decisamente sommerso, Guelfo Civinini, in una raccolta di racconti intitolata Trattoria di Paese. Qualcuno, pochi, lo potrebbe forse ricordare come il librettista de La Fanciulla del West di Puccini. Ma finisce qui, opere di lui ristampate di recente non si trovano di più. Eppure meriterebbe, e non solo come scrittore, ma anche come poeta e giornalista.
Le Finestre Morte, questo il titolo del racconto inserito nella raccolta sopra citata, si svolge tutto dentro un cortile chiuso. «Fino da ragazzetto mi hanno sempre destato un senso non ben chiaro, di curiosità, preoccupazione, diffidenza, nelle facciate delle case, le finestre murate: quelle, voglio dire, che prima c'erano, aperte come le altre, in fila con quelle, o anche in disparte, a guardare un cortile, o sotto una sporgenza di grondaia; e poi furono tappate, e sopra ridipinte.
Tutte le altre sono vive, animate, estrose; sono gli occhi della casa, che guardano il mondo, piccolo o grande, che hanno attorno. Si aprono, si chiudono, si accostano a bocca di lupo a spiare e ammiccare, alzano le mezze persiane a far solecchio, si adornano di vasi di fiori e di gabbie dei canarini, sventolano panni stesi, civettano, sospirano, chiacchierano, spettegolano, litigano. Ci sono anche quelle che si danno arie superbe, non prendono confidenza col vicinato, e stanno quasi sempre chiuse…».

La finestra come soglia immaginaria della narrazione
Viene alla mente quella bella immagine usata da Simenon ne Le finestre di fronte: «C’era una grande casa crivellata di finestre». La finestra nel racconto è membrana narrativa, che separa l’io narrante dal mondo, ma è anche un amplificatore che personifica tante diverse identità, tutte portatrici di un messaggio. Del resto la finestra è connotata anche religiosamente come luogo di annunciazione, o all’inverso, come back door da dove il diavolo, a volte sotto forma di subdolo corteggiatore, si intrufola in casa.
Ma ci sono le finestre morte che l’autore vede «come gli spettri di queste vive…. Il tempo è passato, i colori si sono sbiaditi, l’intonaco non bene spianato si è scialbato di polvere, e anche qua e là si è scrostato, scoprendo l’ossame di sassi e di mattoni della finestra morta».
Ora, la nostra storia, chiusa in un ambiente così ristretto, non può che evolvere verso due direzioni, talvolta sovrapposte: da una parte la meditazione, dall’altra il voyeurismo improntato di eros e mistero. Tuttavia Moravia diceva che proprio il voyeurismo sarebbe il primo motore della letteratura e del cinema. Il nostro autore non fa eccezione. «Ognuna di quelle finestre aveva per me ragazzo, e per quel po’ di ragazzo che per fortuna nostra, chi più chi meno, portiamo sempre con noi lo ha ancora, un che di mistero, intorno al quale mi perdevo volentieri a fantasticare. Chi sa quando era stata murata, e perché...».
Ma per le arti visive è più facile e naturale, e se la lista elencata sopra di scrittori che parlano di finestre e spazi chiusi è nutrita, quella dei pittori e degli illustratori è addirittura sterminata, comunque sempre espressa prevalentemente sulle corde introspettive o voyeuristiche. Nel cinema un po’ meno, ma dopo Hitchcock si cimentano registi del calibro di Antonioni, Özpetek, il Dario Argento di Profondo rosso e soprattutto il Kielowski di Decalogo 6 del 1988, dove un ragazzo mite e introverso di nome Tomek, s’invaghisce di Magda, una donna che vive nel condominio di fronte, più matura di lui. La spia con il suo cannocchiale ogni sera, in ogni aspetto della sua vita.

Una grande padronanza delle tecniche narrative
In letteratura però tutto questo è più difficile, richiede una grande padronanza di mezzi, un perfetto senso del ritmo abbinato a una finissima tecnica descrittiva. Tutto questo in Civinini c’è: «A cavallo fra l’infanzia e l’adolescenza mi accadde di passare un anno della mia vita in un paese del Mezzogiorno. Si stava di casa in una di quelle stradette mozze che la chiamano ‘corti’. Le stanze del davanti davano sulla corte con un lungo terrazzo fiorito di gerani e di convolvoli. Quelle interne, con la cucina e il solito sgabuzzino sul poggiolo, su un cortile silenzioso e squallido chiuso fra la casa nostra, il dietro di un’altra a due piani, e il vecchio tetto di una stalla vuota. Il cortile era della stalla, e da chissà quanto tempo nessuno c’era entrato. Erbacce e ortiche crescevano alte fra mucchi di calcinacci e di pietrame. In un angolo, a fior di terra, c’era una finestra nera di cantina, con l’inferriata. Fra cantina e cortile una dozzina di gatti vivevano in libera e sonnolenta repubblica».
In quel cortile, un mondo chiuso in se stesso dove si spande un silenzio perfetto, dialogano in una lingua incomprensibile a tutti, gatti e finestre. Ma quei gatti, che passano il tempo in quella cornice di assoluta fissità dormendo e sonnecchiando, e quelle finestre, all’apparenza scalcinate e anonime, da cui ogni tanto qualcuno fa cadere degli avanzi per i felini più sotto, non sono tutti uguali. C’è una finestra murata. «Nel rettangolo avevano ridipinto telaio e vetri, e dietro questi, per effetto scenico, un tendaggio rosso sollevato ai lati, a baldacchino, come quelli delle vecchie quinte». E c’è un gatto. «Certo il più vecchio, grande, forte, placidamente autoritario maschio, naturalmente. Soriano tigrato, con appena un po’ di rogna su un orecchio, aveva degli occhi ancora bellissimi, d’ambra chiara». L’unico che guarda quella finestra murata. Senza un motivo. I gatti si sa, sono animali pragmatici: perché guarda lassù, giorno e notte, in direzione della finestra se non ne cade niente di buono da mangiare da anni?
Sembra di sentire il Pessoa di Poemas Inconjunctos: “C’è solo una finestra chiusa/ e tutto il mondo fuori;/ e un sogno di ciò che potrebbe esser visto/ se la finestra si aprisse,/ che mai è quello che si vede/ quando la finestra si apre».
E sospesi su questo mistero, ben scritto e interpretato e che merita davvero di riemergere come peraltro altri scritti di Civinini, perfidamente vi lasciamo.

Massimiliano Bellavista

(direfarescrivere, anno XVI, n. 173, giugno 2020)
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