Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La cultura, probabilmente
Le nuove istanze dell’Impero in crisi,
la strenua, tragica difesa di Diocleziano
per rimandarne l’inevitabile declino
Da Città del Sole, il primo capitolo dell’intenso affresco storico
che delinea l’antico tramonto di un’indimenticabile Roma
di Stefania Ciavattini
Ultimata la pubblicazione del terzo, ampio capitolo de Il declino degli dèi, ambizioso e vasto romanzo storico, proponiamo la recensione del primo dei dodici volumi attraverso i quali Gerardo Passannante intende delineare la progressiva decadenza dell’Impero romano.
L’autore è di altissimo livello; la sua vasta produzione letteraria – in campi diversi, dal romanzo alla poesia, al saggio – testimonia la sua ricchezza espressiva. Gli appartiene, però, anche un’altra dote: l’ampiezza di respiro, la capacità di tenuta della tensione letteraria.
Ben ce lo dimostra questo primo romanzo storico – Il declino degli dèi. Avvisaglie d’uragano (Città del Sole edizioni, pp. 240, € 14, 00) – in cui l’autore, sia che tratti di operazioni militari, del diffondersi di una religione o di nuovi costumi sociali, sia che si soffermi sui caratteri dei personaggi, fa procedere la narrazione in modo strettamente correlato, accomunando gli uni agli altri, prima per indizi e poi apertamente illuminati. In questo modo le digressioni più specificatamente storiche, che intendono inquadrare il periodo, mai prendono la forma di citazioni o di documentazione, ma si snodano attraverso le stesse ambiguità o improvvise opportunità, gli stessi colpi di scena con cui vengono presentati i personaggi.
Il protagonista del libro è Diocleziano, l’imperatore che, pur consapevole della fine imminente dell’Impero e della propria serenità familiare, si spese interamente per lenire gli effetti di queste minacce incombenti. La sua immagine, scolasticamente associata anche alle persecuzioni, viene esplorata dall’autore in tutti i suoi lati e ne emerge, come sua dote fondamentale, l’onestà, perché «mai antepose, finché fu in carica il proprio interesse a quello dello Stato».
A questo primo volume ne seguiranno altri, ma ciascuno è compiuto in sé perché, non la successione temporale degli eventi importa all’autore, ma il loro profondo significato umano.

Il linguaggio
Il linguaggio con cui Passannante si esprime è insieme colto e chiaro, alto e prezioso nelle parole ma mai elitario. Profondamente pensato prima di essere espresso, non ha nulla dell’improvvisazione o della frammentarietà a cui ci hanno abituato molti scrittori contemporanei.
Un modo di scrivere che ha la compostezza dei classici, pur utilizzando un lessico attuale e molto duttile, capace di esprimere i sentimenti più complessi dell’uomo, di approfondire i temi filosofici della nostra esistenza, ma anche di illustrarci, con vivace realismo, la faticosa e spesso volgare vita militare.
In ogni caso, l’espressione ha un suo incedere fluido e orecchiabile come se seguisse una qualche forma di metrica, non estranea, probabilmente, all’esperienza anche poetica dell’autore.

Il racconto
Il testo, all’inizio, dedica un ampio spazio alla ricostruzione del panorama generale dell’Impero ai tempi di Diocleziano, per fornire al lettore una base solida per la collocazione dei personaggi, in modo da intenderne sentimenti e cultura.
Tutt’altro che pacificato, l’Impero, oltre che alla mai sopita ostilità dei Persiani, si trova a contrastare numerosi moti di ribellione o di resistenza, e persino a impedire avventurosi tentativi di espansione, come quello, deliziosamente narrato, della giovane Zenobia, nel suo intento di emulare Cleopatra. Né mancano i conflitti interni che portano al frequente alternarsi di imperatori e di altre importanti cariche, morti non in battaglia, ma per mano di qualche criminale nemico o addirittura parente, con il continuo pericolo di istituire forme di anarchia.
Su un altro piano, entrano in contrasto anche le tradizioni, le religioni, le culture diverse: le ben note strade costruite dall’Impero, insieme allo scambio di merci, consentono il confronto delle idee, a volte conciliabili, altre inevitabilmente in contrasto. Così possiamo trovare a Roma imperatori che adorano il Sole insieme agli déi tradizionali, altri che si nutrono del pensiero greco, in particolare di Plotino.
Il cristianesimo invece, per quanto nel complesso tollerato, sembra continuamente ricreare motivi di tensione: il suo forte accento interiore nel rapporto con Dio nega ai suoi adepti più fedeli di poter svolgere riti sacrificali agli dèi, mentre la sua accettazione della fragilità dell’uomo poco si concilia con l’ammirazione del valor militare così in auge nella Romanità. Eppure questa religione si diffonde sempre di più proprio grazie all’Impero, che le ha creato un terreno fertile consentendo, con la caduta dei singoli confini, un’idea di fratellanza tra popoli diversi e generando, con le incessanti guerre, un desiderio di pace condiviso. Saranno queste le istanze che, insieme a quelle di una maggiore giustizia, consentiranno al cristianesimo di entrare profondamente nel tessuto sociale e, come vedremo, nella casa stessa dell’imperatore.

Diocleziano: uomo e imperatore
Questo dunque l’inquieto mondo in cui si muove l’intera storia di Diocleziano.
L’autore fa precedere la sua comparsa nel testo da due episodi particolari, che sembrano predestinarne l’ascesa: l’insolita morte dell’imperatore Caro che, dopo la vittoria sui Persiani, venne trafitto da un fulmine a Ctesifonte e la profezia di una druidessa di Tongre, che aveva preannunciato a Diocle, questo il suo primo nome, la proclamazione alla più alta carica dello stato. Se entrambi i fatti sembrano avvolgere in una aura propiziatoria la sorte del valente generale, l’autore però ci tiene a mostrare un Diocle perfettamente in grado di dare una mano decisiva al suo destino. È la sua conoscenza dei soldati che lo mette in grado di fiutare il loro malcontento nei confronti di Aper e lo porta a decidere di eliminarlo, facendo convergere su di sé il loro gradimento.
Non è sete di potere quella di Diocleziano, ma è coscienza di avere – lui, figlio di uno schiavo liberato che solo nella milizia aveva potuto trovare una strada per emergere – le qualità adatte per mettersi al servizio, da protagonista, della grandiosa missione di Roma. Ed era una realistica valutazione di sé, perché, se altri furono strateghi migliori, o migliori oratori, «nessuno più di lui ebbe un così elevato concetto del suo ruolo, e nessuno più di lui fu guidato da un così vigoroso senso dello Stato».
Lo stesso Diocleziano, riflettendo sul proprio periodo storico e sulla continua destituzione di imperatori, riconosce nel loro orizzonte limitato la causa di così brevi durate al potere; vede i suoi predecessori capaci di sopravvalutare una vittoria singola e incapaci di coglierne l’insieme, li reputa cattivi conoscitori dell’animo umano e quindi ignari del fatto che può essere di maggior successo utilizzare la clemenza che la vendetta nei confronti dei nemici e che può essere di maggiore efficacia rispettare l’amor proprio dei soldati, anziché umiliarli con un eccessivo rigore. In effetti la descrizione degli uomini, che spesso Passanante affida a Diocleziano, ci è resa subito interessante dalle note immediate e dirette dell’imperatore; successivamente i personaggi verranno approfonditi e sviluppati, ma sempre quel primo giudizio imperiale si rivelerà illuminante e obiettivo, in grado di discernere tanto le qualità di uomini complessivamente spiacevoli, quanto i difetti di quelli maggiormente apprezzabili.
A parte i singoli personaggi che vedremo più avanti, anche l’occhio rivolto al complesso dell’esercito è quello di un condottiero giusto e benevolo, che di quei soldati conosce sì la ruvidità e a volte la ferocia, ma anche la fatica, i sacrifici, le nostalgie tante volte condivise. È da quel mondo, e non dall’ormai rammollito senato dell’Urbe, che viene la classe dirigente del nuovo Impero; non più Roma per la sua magnificenza, ma Nicomedia ne diventa la vera capitale, per la sua posizione strategica, situata a metà strada tra un Oriente da tenere sotto controllo e un Occidente non certo esente da tentativi di affrancarsi dal giogo imperiale.
Prima di abbandonare il racconto dell’iniziale carriera di Diocleziano, a completamento della sua conoscenza, Passannante ce lo mostra anche dal punto di vista dei suoi affetti più intimi. Benché breve, la descrizione del suo amore per Prisca è un passo di pura poesia: sembra di vederla quella sposa trepida ed esile completamente dedita all’uomo Diocle e alla figlioletta Valeria. Si comprende il rispetto che sempre Diocleziano avrà nei confronti della sposa, anche quando i loro sentimenti muteranno; sarà la virtù della moglie, non frutto di un dovere, ma profondamente legata al più limpido degli amori, a spingerlo ad astenersi da qualunque pretesa quando quel sentimento verrà meno.

Le vicende politico-culturali
Il racconto dell’ascesa di Diocleziano è accompagnato, nel testo, da frequenti digressioni che ci consentono di approfondire vari aspetti dell’Impero, dalle modalità di vita alle numerose culture che vi si affacciano.
Così la missione del saggio Aristobulo, inviato a tastare il terreno con Carino, il debosciato e nevrotico figlio di Caro, ci dà l’occasione di vedere, con gli occhi sani di un provinciale, la Roma di quel tempo. Non ci meraviglia più la scarsa attrazione provata da Diocleziano per l’Urbe: Carino ha accentuato i suoi aspetti peggiori, dedito com’era solo allo sfarzo e alle feste, oltre che all’arbitrio più totale nel disporre della vita e della morte delle persone. Le grandiose feste offerte dal predecessore al Colosseo sembrano l’unica occasione di guadagno per un popolo che ha perso la sua dignità, dedito al commercio minuto e occasionale nei luoghi ove si svolgono gli spettacoli, per non parlare della pietosa esposizione delle proprie deformità che un’intera folla inscena per la propria sopravvivenza. Carino morirà per mano del tribuno Aurelio, a cui aveva sottratto e ucciso la moglie. Dall’ultimo sguardo al suo assassino emerge tutta la sua follia: insieme al dolore e alla sorpresa guizza nei suoi occhi un barlume di gratitudine per essere stato finalmente sollevato dal male di vivere.
Con l’eliminazione di Carino, cade ogni ostacolo alla proclamazione di Diocleziano e si pone il presupposto alla conoscenza tra l’imperatore, la sua famiglia e il tribuno, così carica di risvolti sentimentali.
Un’altra digressione che ci sembra degna di nota è quella che riguarda Carausio e i Bretoni. L’interesse nasce per il fatto che l’episodio ben si presta a spiegare la visione per nulla trionfalistica della storia che l’autore predilige e ci fa acquisire nel suo procedere narrativo per nulla scontato. Carausio, su ordine di Massimiano, sanguinario cesare a cui l’imperatore aveva affidato la vigilanza dell’Impero, aveva a lungo assicurato il controllo dei Britanni e dei suoi pirati. Dal suo incarico Carausio aveva tratto una profonda conoscenza dell’arte navale e fu proprio questa, insieme a una certa simpatia per quel popolo indomito, a far sì che decidesse di mettersi a capo degli insorti. Aveva capito infatti che i ribelli non solo volevano allentare il giogo di Roma, e ancor più quello di Massimiano, ma erano altrettanto interessati a non far ripiombare l’isola nell’anarchia tribale da cui i Romani li avevano comunque sollevati: la situazione ideale per una mediazione che Diocleziano e non certo Massimiano avrebbe potuto far sua.
Purtroppo l’imperatore non colse questa opportunità e lasciò che il suo cesare domasse nel sangue la rivolta. Fu la sua maggior vicinanza ai problemi del fronte orientale a non permettergli di approfondire la questione? Fu la sua volontà di non esautorare il cesare che aveva reso garante della sicurezza dell’Impero in occidente? L’errore umanizza Diocleziano e insieme ribadisce l’attenzione rivolta dall’autore ai perdenti – questa volta a Carausio – e a quei rivoli di storia, anche gloriosa, che si esauriscono per il venir meno anche di una sola delle variabili che avrebbero potuto assicurane il successo.
La visione della complessità dell’Impero sul piano culturale e della sua graduale “contaminazione” viene offerta al lettore anche tramite una serie di racconti diversi. Tra i primi nel testo, il racconto di Paolo di Samosata, vescovo e tesoriere della regina Zenobia ai tempi di Aureliano, che getta luce sull’incipiente cupidigia dei ministri della chiesa, mentre l’incontro tra Ario e il vescovo Luciano ci introduce ai molti problemi dottrinali: dal concetto di Trinità, così difficilmente conciliabile con il monoteismo, alla vera natura del Cristo. Non meno spinoso il problema della giustificazione del male che vediamo dibattuto tra il cristiano Lattanzio e Porfirio, discepolo ed erede della filosofia greca di Plotino.
Il racconto più toccante è però quello di Doroteo, l’eunuco cristiano che verrà scelto per occuparsi dell’educazione di Valeria, la figlia di Domiziano e Prisca.
Passannante ci racconta la sua storia di bambino evirato per uscire dalla povertà, ci narra della sua paura, della sua fiduciosa resa al medico “adulto”, della sofferenza del suo risveglio. Lo segue poi nella crescita dell’adolescenza, nel delinearsi di una vita necessariamente “diversa” per lo più in compagnia di suoi simili. L’incontro con il cristianesimo appare dunque non solo il lenimento di tanto dolore, ma anche il recupero, attraverso la comunità religiosa, dell’unica possibile famiglia. Sarà felice quando Diocleziano lo sceglierà come pedagogo, in verità per le sue doti di «tintore di porpora» e non può che essere struggente il suo rimpianto di non poter essere visto nella sua nuova condizione dal padre, colui che aveva scelto per lui la vita di eunuco.
Proprio in virtù della differente percezione dei cristiani vediamo incrinarsi il rapporto tra Diocleziano e la moglie Prisca: tollerante ma anche insofferente per il loro fanatismo lui, molto più attenta al loro intimo rapporto con la divinità lei. La nota fondamentale di Prisca è l’amore concreto per le persone e non può quindi sentirsi appagata dalla formale ritualità romana, né potrà allinearsi al marito in quella che lei stessa gli contesterà come la sua unica, vera religione: quella dello stato.

L’anima dei personaggi
Passannante è molto attento alle diverse manifestazioni del sentimento.
Sono veri capolavori le descrizioni del lento trasformarsi dei sentimenti familiari di Diocleziano, come dell’incipiente innamoramento di Valeria per Aurelio, con un sentimento costretto a maturare in fretta e a conoscere la necessità della rinuncia. Altrettanto felice la descrizione dell’attesa del piccolo Costantino, che si apposta sul tetto della casa materna per essere il primo a vedere il padre ritornare dalla guerra, nonché toccante il racconto dell’amicizia che sorge tra Aurelio e Costanzo Cloro, in una notte trascorsa per entrambi all’insegna di una pungente nostalgia. La trepida attesa con cui Valeria spera di incontrare Aurelio, lasciato da suo padre a vegliare sulla sicurezza sua e della madre Prisca, il carnale desiderio con cui Elena aspetta il rientro dello sposo Cloro, il ricordo di Aurelio della provocante moglie Lucrezia, mettono a confronto tipi diversi di donne. Nel loro cuore Passannante entra con la facilità di chi ha anche dedicato a questo tema un intero canzoniere.
Anche Diocleziano viene colto nella sua fragilità, quando si rende conto di non aver mai potuto godere della meravigliosa intimità che lega Prisca e la figlia Valeria, impedito a ciò dalle prolungate assenze o forse dal suo lento indurirsi, sottostando ai doveri imposti dal suo ruolo. Sembra di sentire la sua concitata risposta alla figlia Valeria che mette in dubbio l’amore paterno per la madre: «Ho sempre amato tua madre e la mia stessa rigidezza, o quella che a te sembra tale, ne è solo una tortuosa conseguenza». Sarà impossibile spiegare a una persona così giovane come l’allontanamento da Prisca per una nuova campagna contro i Sarmati possa essere una forma di amore, far comprendere come tutto nella vita è sottoposto a un incessante logoramento.
La maledizione di Eraclito, il filosofo greco che mise in luce come tutto si trasforma, è ormai coscienza quotidiana per Diocleziano. L’imperatore, in un momento di introspezione, avverte chiaramente che «solo un pazzo come me può ancora serrare i denti e tentare di arrestare una fiumana che irrompe da ogni parte, caparbiamente inteso a rallentare lo sfascio, che comunque avverrà».
A questa consapevolezza si aggiunge la chiara percezione della fine del rapporto coniugale con Prisca. Non vale a lenire la tristezza dirsi che poca cosa sono i dolori personali di fronte a quelli dello stato. L’ultimo colloquio con Prisca è talmente onesto da entrambe le parti da restituirci ancora una volta la grandezza del loro amore. Preso commiato per sempre da lei, non senza averle rinnovato il sentimento nutrito nei suoi riguardi, l’imperatore si mette in testa al suo esercito. Prisca, non meno affranta, percependo la gravità di quell’ultimo, irreversibile momento, lo associa alla perdita totale che avrebbe potuto derivarle dalla morte di Diocle in battaglia e non può che correre «nelle sue stanze per sciogliere i liberatori meccanismi del pianto».
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Stefania Ciavattini

(direfarescrivere, anno XIII, n. 138, luglio 2017)
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