Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La cultura, probabilmente
L’approccio psicoterapeutico:
come curare il disagio degli adolescenti
e i problemi irrisolti degli adulti
Da Falco, una guida di primo accesso per genitori e figli
che vogliono intraprendere insieme un percorso di analisi
di Francesca Tarantino
Essere genitore non è facile, essere adolescente nemmeno. L’ultimo saggio della psicoterapeuta Isabella D’Attoma vuole essere una specie di vademecum per entrambi, e anche per chi si avvicina per la prima volta al mondo della psicoterapia, che ha come principale compito la cura del paziente attraverso l’analisi e la parola. Una parola che da liberatrice può trasformarsi in farmaco di guarigione, attraverso un percorso in cui il terapeuta, come un novello Caronte, traghetta le giovani anime in pena verso il sentiero più difficile, quello che riconduce alla fonte del proprio malessere.
Mia madre non mi ama. Istruzioni per la gestione dei comportamenti adolescenziali (Falco editore, pp. 128, € 12,00) si presenta come un collage di storie inventate, ma in realtà racchiude una serie di episodi che traggono spunto da vicende reali e dall’esperienza professionale dell’autrice, la quale parte da una premessa fondamentale: non c’è scissione tra corpo e psiche. Quello che a volte può sembrare un banale momento di stress, può, invece, rivelarsi l’esordio della malattia, che procedendo per diversi steps si evolve, fino a quando non arriva all’ultimo stadio, quello della perdita di qualsiasi controllo.
Lo psicoterapeuta è chiamato, allora, a percorrere un doppio binario: da una parte, deve utilizzare un metodo di tipo maieutico, ossia “tirar fuori” dal paziente adolescente i suoi pensieri personali, per condurlo pian piano verso la guarigione (lavoro curativo); dall’altra, deve saper aprire nuovi varchi, ovvero fornire il giovane di coordinate per guardare con occhi nuovi la realtà (lavoro creativo-dinamico).

Storie di relazioni affettive
«La storia della propria vita è fatta, oltre che di genetica, di rapporti, di relazioni affettive che iniziano dall’infanzia» (p. 33). Il percorso di un adolescente, di per sé delicato, risente del rapporto che da bambino ha stabilito con le persone significative della propria vita.
Nel saggio l’autrice riconduce a diversi schemi le vicende personali dei vari pazienti. C’è, per esempio, Manuela, rinchiusa nella più profonda solitudine e costretta a rivestire il ruolo di figlia-madre per i propri fratelli, a causa di genitori assenti e scarsamente empatici. Risultato: sfiducia nel mondo e negli altri, con un perenne senso di inadeguatezza, evoluto in trasgressione fino all’atto più estremo, il tentato suicidio.
Più avanti incontriamo Silvia, schiava di meccanismi ossessivo-compulsivi, che la spingono a sottoporsi a performance sempre più difficili da praticare. Anche in questo caso, l’origine del problema è da rintracciare nei legami familiari. Silvia ha una madre molto apprensiva e un padre ipercritico, eternamente insoddisfatto, che fa ricadere sulla figlia pretese pesanti come macigni.
Al centro dei disturbi di un adolescente, ribadisce Isabella D’Attoma, ci sono sempre conflitti irrisolti e relazioni problematiche con le figure genitoriali. Fatta eccezione per le coppie serene ed equilibrate, ci sono quelle incoerenti che fanno sentire i figli amati a intermittenza, madri inaffidabili, o padri assenti.
Può capitare che un figlio si trovi nel bel mezzo dei conflitti tra genitori, magari separati. In questo caso diventerà una presenza “triangolata”, suo malgrado coinvolto in dinamiche che, in realtà, non lo riguardano affatto, ma che avranno consistenti ricadute a livello psicologico.
Una figlia “orfana” – in senso metaforico – di madre tenderà a sviluppare un’iperattività del sistema esplorativo, mostrando competitività, aggressività, voglia di vincere, alla quale si contrappone un’ipoattività del sistema di attaccamento (atteggiamento schivo, distaccato, poco incline alle emozioni).
In buona sostanza, dunque, il saggio di D’Attoma ruota attorno a un concetto fondamentale, cioè che il nostro agire da adulti reca sempre l’impronta dei modi, delle azioni apprese dalle presenze più importanti e autorevoli della nostra vita. L’autrice distingue tre modalità di apprendimento, ciascuna delle quali si fonda su uno dei seguenti tre assunti: 1) “essere come loro”; 2) “agire come se fossero ancora qui”; 3) “trattare noi stessi come ci hanno trattato”.
Per questo, un altro compito dello psicoterapeuta diventa quello di analizzare le figure genitoriali e il modo in cui interagiscono coi figli adolescenti.

Essere padri, essere madri
Sfogliando le pagine di questo saggio breve, l’impressione sarà quella di riconoscersi ora in una situazione, ora in un’altra. Non perché tutti abbiamo una patologia, ma perché tutti nel corso della nostra adolescenza avremo affrontato alcune criticità sia nel rapporto con gli altri che in quello con noi stessi. Proprio per dare alcune dritte su come affrontare determinati disagi senza cadere nell’errore del pregiudizio o, peggio ancora, nel vortice della negazione, l’autrice ha scelto di terminare il saggio con un’Appendice rivolta ai genitori: una miniguida per aiutarli a interpretare i comportamenti dei loro figli e a comportarsi in modo appropriato a seconda del contesto problematico (alimentazione, bellezza e inestetismi, droga e alcol, bullismo, sessualità, dipendenza da smartphone).
Come ricordavamo all’inizio, per di più, anche i genitori, oltre ai figli, hanno bisogno di sentirsi capiti e accettati, specie se portano sulle spalle la pesante eredità di problemi adolescenziali non risolti. Pertanto, l’autrice li raggruppa in due macrocasistiche: il modello forte e autorevole e il modello debole ed eccessivo (troppo permissivo o troppo rigido o troppo apprensivo). Una grossa tentazione per il genitore è quello di voler fare dei figli un’appendice di sé e, quando questo non avviene, l’istinto più frequente è di trasformarsi in giudice ipercritico.
Il genitore modello, invece, evita di avere aspettative eccessive sui figli, il che non equivale a dire che non deve averne affatto! Su questo punto Isabella D’Attoma insiste a più riprese: il padre e la madre hanno il compito di responsabilizzare e crescere il figlio, stimolandolo a coltivare i propri desideri e le proprie ambizioni. Allo stesso tempo, senza ripiegare nella facile accondiscendenza, devono stabilire dei confini che servono a perimetrare la sua libertà, non a eliminarla (il cosiddetto criterio del “no relazionale”). La relazione tra madre-figlio/a o padre-figlio/a è asimmetrica, non paritetica. L’autrice ricorre all’immagine della quercia accostandola a quella del genitore modello: come l’albero, deve avere forti radici, salde e ben radicate nel terreno, e lunghi rami che spaziano verso l’esterno (simbolo di libertà e apertura). Come lo psicoterapeuta, anch’egli deve operare la paziente arte del “tirar fuori” dal figlio le sue abilità e qualità. E anche quando la relazione coniugale è finita o naviga in brutte acque, bisogna investire sull’alleanza madre-padre, indipendentemente dal rapporto moglie-marito.
Nell’ultima parte del saggio alcune questioni sono risolte in modo forse un po’ sbrigativo: per esempio, quando l’autrice fa giusto un rapido cenno ai problemi del bullismo e dell’abuso di droghe e alcol, dando soltanto qualche consiglio ai genitori senza approfondire in maniera esaustiva temi così delicati. Probabilmente la scelta di essere sintetica non è casuale, dal momento che la psicoterapeuta ha concepito il testo – riuscendoci – come una prima chiave di accesso al complesso mondo adolescenziale, cui far seguire un lavoro mirato di analisi insieme a un professionista.

Francesca Tarantino

(www.direfarescrivere.it, anno XII, n. 125, maggio 2016)
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