Anno XXI, n. 231
maggio 2025
 
La cultura, probabilmente
Eroi del nostro tempo: quelle istituzioni
che hanno scelto di opporsi alla mafia
per un futuro semplicemente possibile
Per Città del sole, un saggio di Francesca Viscone racconta
le lotte quotidiane di chi in Italia si impegna contro la malavita
di Renate Siebert
Chi sceglie di lottare contro la mafia oggi è ritenuto un eroe. Chi lotta davvero, tutti i giorni, nelle sedi della giustizia, non si ritiene tale. Questo saggio raccoglie le testimonianze di persone che lavorano affinché il loro non rimanga un esempio isolato, per quanto coraggioso, ma diventi la normalità in tutto lo stato; affinché non si debba più affrontare la criminalità da soli ma con il sostegno delle leggi e della forza di un paese che non ha dimenticato (né trovi più comodo non ricordare) cosa significhi il termine legalità. Francesca Viscone, nel suo La speranza non è una terra straniera. Storie di sindaci e amministratori minacciati dalla ’ndrangheta (Città del sole, pp. 342, € 15,00), non racconta semplicemente i pericoli che queste persone corrono ogni giorno, ma anche e soprattutto le loro scelte e la loro determinazione, il principio saldo secondo il quale per proteggere davvero i propri figli si debba fare in modo che si possa camminare sicuri e a testa alta per le strade di ogni città. Un cambiamento che comincia proprio da quei figli ai quali garantire un’istruzione adeguata, perché è proprio sconfiggendo l’ignoranza che si sconfigge la paura e si può iniziare a costruire un futuro migliore.
Riportiamo di seguito la Prefazione al volume, a firma di Renate Siebert.

Bottega editoriale


Prefazione

Con questo volume Francesca Viscone, ancora una volta, ci regala un lavoro che, innanzitutto, rappresenta un piccolo gioiello di scrittura poetica: ritratti di persone, di situazioni e di luoghi che testimoniano una passione civile e un amore sofferto per la sua terra. Si tratta di un saggio che va al cuore dei problemi che oggi assillano la Calabria, il Mezzogiorno e l’Italia tutta: da una parte le lacune dell’amministrazione pubblica, dall’altra la criminalità di stampo mafioso, la sua capillare presenza nella vita quotidiana, il suo peso sulle scelte politiche e amministrative e la sua prepotenza nei riguardi dei cittadini. La speranza è – o non è – una terra straniera? Ovvero, la speranza diventa un lusso incalcolabile quando la terra che ci appariva familiare assume via via le sembianze di un continente estraneo, irriconoscibile? Una terra di bellezza struggente, deturpata da una volgarità criminale distruttiva e grossolana. Eppure, i mafiosi rappresentano una minoranza. È l’area opaca del consenso col malaffare che consente loro di spadroneggiare. Antonino Calderone, grande pentito di Cosa Nostra, diceva: «Il mafioso cerca il potere e se lo prende, e ne è orgoglioso. Ma gran parte del suo potere glielo danno gli altri [1]». E questa è forse la questione più controversa e dolorosa che queste pagine pongono.
L’autrice ha scelto di dare voce a quelle protagoniste e quei protagonisti della lotta contro la ’ndrangheta che si trovano allo snodo decisivo della lotta per la legalità: sindache e sindaci sono le figure che in prima persona si scontrano con la moltitudine di espressioni che la pretesa di “signoria territoriale” mafiosa può assumere e che spesso si manifesta in atti di imparagonabile violenza. Contrastare il convitato di pietra degli appalti pubblici, della riscossione dei tributi, delle delibere urbanistiche e, in generale, delle decisioni che riguardano la qualità della vita e il livello di civiltà della convivenza sul piano di un Comune, richiede ormai una fermezza che assomiglia ad un “coraggio da leoni”, checché ne dicano loro stessi, sindache e sindaci, che preferiscono che il loro impegno sia paragonato ad una normale amministrazione efficiente piuttosto che a un impegno eroico. Lo sottolinea Antonino Bartuccio, ex sindaco di Rizziconi, che ha dato le dimissioni dal suo incarico, denunciando in modo circoscritto le pressioni della cosca Crea. In seguito è costretto, insieme alla famiglia, a vivere sotto protezione. È la terza volta che il Consiglio comunale di Rizziconi viene sciolto, le prime due per infiltrazioni mafiose, per volere dello Stato, questa volta – e sembra un paradosso – per volontà della ’ndrangheta. Il caso ben illustra l’ampiezza dei metodi di pressione esercitati dai mafiosi per imporre il proprio potere sul territorio. Quando scatta l’operazione “Deus”, che si basa sulle sue denunce, Bartuccio manda un messaggio ai magistrati inquirenti in cui tra l’altro si legge: «La piena e forte consapevolezza di aver fatto la cosa giusta e di essere stato sempre un uomo libero mi consente di guardare mia moglie e i miei figli negli occhi e di dire loro “vi voglio bene”, certo di non averli messi in pericolo, bensì di averli salvati… Grazie a nome mio e della mia famiglia».
Sono sia donne che uomini a prendere la parola in questo libro, sindache e sindaci di comuni di dimensioni piccole o medie come Monasterace, Rosarno, Cetraro, Polistena, Parghelia, Soriano, Benestare, Rizziconi o Isola Capo Rizzuto, ma c’è anche il sindaco di Lamezia Terme, importante città calabrese di circa settantamila abitanti. Donne e uomini ugualmente minacciati, eppure, nel suo modo appiccicoso e insinuante, l’organizzazione mafiosa riserva alle donne un trattamento specifico sfruttando sia antiche usanze come la calunnia e gli stereotipi sessisti, sia le novità della rete con insulti ad esempio su Facebook, come denuncia la sindaca di Rosarno, con satira, fotomontaggi e messaggi denigratori. Racconta anche Carolina Girasole, ex sindaca di Isola Capo Rizzuto: «Un blog anonimo mi ha perseguitata con battute pesanti per almeno tre anni. Facevano continue allusioni alla mia vita privata. È più facile delegittimare una donna. Più facile fare una battuta su un vestito scollato… fare in giro una battuta su una donna che poi è anche il sindaco è molto carino, molto simpatico. È da bar». In compenso però una donna è meno esposta a incontri casuali, come spiega Maria Carmela Lanzetta, sindaca di Monasterace: «Le donne sono qui meno esposte al rischio di complicità con la criminalità organizzata. Perché il mafioso ha difficoltà a venire a parlare con me. Dovrebbe chiedere un appuntamento o dovrebbe venire in ufficio in comune, altrimenti a me, dove mi vede? Voglio dire, mi vede per strada? Mi può mai fermare per strada? No. È difficile. Mi vede al bar? Per una volta mi offre il caffè, la seconda volta io non entro più in quel bar… bisogna evitare che si creino quelle vicinanze pericolose›». Per quanto riguarda gli attentati, invece, emerge una parità assoluta: proiettili, incendi, bombe, telefonate minacciose e così via. Un triste elenco di una quotidianità sotto assedio, donne e uomini egualmente. Ed egualmente la ’ndrangheta minaccia i familiari degli amministratori sotto tiro. E chi ha figli, magari bambini piccoli, diventa particolarmente vulnerabile.
In tali contesti l’impegno di un amministratore onesto e orientato al bene pubblico può assumere a tratti i contorni delle fatiche di Sisifo: forte del consenso della maggioranza dei cittadini che l’hanno eletto e che condividono i suoi principi in via generale, incontra tuttavia – e spesso da parte di queste stesse persone – un’agguerrita opposizione quando le misure amministrative vengono a toccare i vari privilegi dei singoli che si sono sedimentati nel tempo. Lotta agli abusi edilizi, abbattimento di edifici prescritto dalla magistratura, pagamento di tributi comunali arretrati, rispetto paesaggistico e così via, sono misure magari astrattamente condivise nei programmi pre-elettorali. Ma tutt’altro diventano al momento in cui si dovessero tradurre in atti concreti. Qui si tratta di un ventaglio di questioni che possono riguardare sia cittadini onesti, sia affiliati alle cosche, ma sulle quali l’organizzazione criminale ha gioco facile per basare le sue campagne denigratorie contro gli amministratori onesti. Sindaci che peraltro combattono su più fronti: da una parte contro gli attacchi mafiosi, dall’altra contro la lentezza della burocrazia che fa fallire una parte delle opere avviate. Particolarmente grave appare in questo contesto l’incapacità pubblica di gestire i beni confiscati ai mafiosi. Le disfunzioni macroscopiche saranno comunque scaricate sugli amministratori locali e ai mafiosi non potrà che fare piacere quando si accusa don Ciotti di essere un “colonizzatore” venuto da fuori per appropriarsi delle terre “nostrane”. In questo processo degenerativo non sorprende infine, come è successo a Isola Capo Rizzuto, che la gioiosa inaugurazione della mietitura (riuscita solo dopo l’intervento dei mezzi della forestale perché nessuna ditta era disponibile) veda presenti solo i rappresentanti delle istituzioni, la Coldiretti, Libera. I cittadini ormai sono latitanti.
Nell’intento di ristabilire la loro egemonia sul territorio e le sue anime, i mafiosi si muovono su più piani: produrre incertezza, paura e – meglio ancora – angoscia, in chi li combatte, da una parte. E dall’altra delegittimare, infangare, denigrare i nemici, gli amministratori onesti, con sospetti che culminano, paradossalmente, nell’accusa di essere, loro, i mafiosi! Ma, come sottolinea il sindaco di Cetraro Giuseppe Aieta, nel confronto della criminalità organizzata non possono esserci mezze misure: «O il rispetto della legge, o il compromesso. Non c’è via di mezzo», un principio che andrebbe seguito sia da chi amministra, sia da chi si trova all’opposizione. Ma non è sempre così. Se i mafiosi si servono degli attentati di cui i racconti dei sindaci forniscono uno spaventoso inventario, l’opposizione a volte usa campagne pubbliche discutibili: ad esempio per manifestare contro la sindaca Girasole con magliette che gridano, stampato, “io non sono mafioso”. Traduzione: tu, la sindaca che parla di mafia, hai creato il problema, ostacoli il turismo, perché qui la mafia non c’è mai stata, l’hai inventata tu, nominandola. Un altro mezzo, ancora più contorto, è quella strana miscela tra tragedia e commedia che si nasconde dietro i termini tragediare e tragediatore e che, come scrive Viscone, viene messa in scena non come esternazione di un dolore vero, ma come trappola, specchio per gli allocchi. Un notevole esempio di tale strategia viene raccontato da Elisabetta Tripodi, sindaca di Rosarno, che riceve una lettera dal capomafia Rocco Pesce, in carcere a Milano per scontare una condanna definitiva all’ergastolo, che insinua antiche frequentazioni tra la sua famiglia e quella della sindaca e si dice risentito dal fatto che il comune si sia costituito parte civile nel processo contro il clan dei Pesce. Sostiene inoltre di aver contribuito con i voti del clan all’elezione della sindaca. La lettera non contiene minacce esplicite ma insinua legami compromettenti: un buon esempio per illustrare una delle strategie mafiose. La sindaca rispose con una denuncia e fu messa sotto scorta. Tuttavia, scrive Viscone, «le conseguenze di quella lettera furono pesanti, anche perché molti cercarono di usarla contro la sindaca. Se non hai paura, se reagisci, la ’ndrangheta cerca sempre di screditarti. Ti uccide moralmente, distrugge la tua credibilità. Per una persona onesta, questa offesa alla sua dignità, è un dramma doloroso. È come assistere, impotenti, alla propria morte civile».
In attesa di chiarimenti processuali, Carolina Girasole – “una figura tragica”, nelle parole di Viscone – è ora agli arresti domiciliari con l’accusa di aver agevolato il clan Arena in cambio di voti. A questo riguardo non possono non venire in mente i termini tragediare e tragediatore. Nell’atto d’accusa – sulla base di intercettazioni di telefonate tra alcuni componenti della famiglia Arena – leggiamo «come le frasi accusatorie dei fratelli Arena nei confronti della Girasole siano pronunciate nel corso di “sfoghi” del tutto genuini e spontanei, nati dalla causale lettura di articoli di giornali che dipingevano una immagine pubblica del Sindaco Girasole notevolmente lontana da quella che, invece, si era palesata direttamente ai fratelli Arena, entrambi destinatari, in prima persona, di richieste di appoggio elettorale del tutto incompatibili con quella fama di amministratore “antimafia e irreprensibile” conquistata, al tempo, dall’indagata».
Si saranno divertiti a farsi intercettare? Genuinamente e spontaneamente? Come è d’obbligo la fiducia nella magistratura, è d’obbligo tuttavia, anche, la sfiducia nella sincerità, genuinità e spontaneità dei mafiosi.
Il testo di Viscone svela alcune delle strategie mafiose che opprimono i cittadini, strategie che mirano a farli regredire a sudditi. Ma, soprattutto, racconta una resistenza quotidiana, civile e politica, da parte di amministratori eletti democraticamente. Questo è un libro su di loro, protagonista di queste storie non è la ’ndrangheta. La speranza non è una terra straniera. La criminalità mafiosa è visibile e amplificata dai mass media; sommersa, il più delle volte, rimane la resistenza civile. La speranza, per l’appunto.
Oltre alle questioni della trasparenza amministrativa e della legalità, gli obiettivi che maggiormente vengono nominati dalle sindache e dai sindaci hanno a che fare con un modo diverso di intendere l’economia, la cultura e la scuola. «Con la cultura si mangia, eccome!», esordisce il sindaco di Cetraro. Cultura, legalità ed economia sono questioni connesse fra di loro e l’approccio alternativo di questi amministratori vorrebbe strutturare l’intervento pubblico tramite una sinergia innovativa: una scuola funzionante, investimenti sulla cultura, progetti per un tipo nuovo di turismo e attività economiche liberate dalla pressione mafiosa. In questo contesto l’uso dei finanziamenti europei, laddove si riesce a gestirli, diventa decisivo. A Cetraro questi finanziamenti hanno consentito la costruzione del porto, di un museo e degli spazi per attività culturali e imprenditoriali giovanili. Il sindaco Aieta ne va fiero: «Sa perché ho fatto quaranta milioni di euro di appalti? Perché il primo anno che siamo arrivati, con il mio assessore ai lavori pubblici Aita abbiamo deciso di prendere i soldi che c’erano e di non spenderli per fare clientelismo spicciolo, aggiustando una strada di qua e un lampione di là. Li abbiamo spesi per la progettazione. Quando uscivano i bandi avevamo già i progetti esecutivi. Se esce il bando sul porto turistico e tu non hai ancora fatto niente, lo perdi! Così si perdono tutti i finanziamenti europei». Ma per riuscire a gestire questi flussi occorre anche dotare l’amministrazione di competenze professionali specifiche e di inventare magari procedure nuove per gli appalti. Soprattutto per i subappalti dove maggiormente s’infiltra la contaminazione mafiosa. Ne parla anche il sindaco di Polistena, che ha modificato il regolamento che disciplina i contratti: «Abbiamo inserito una clausola per cui possiamo rescindere i contratti se riceviamo notizie negative su una ditta, anche da organi non ufficiali diversi dalla Prefettura e dalla Camera di Commercio, quali per esempio i giornali». Questo sindaco, Michele Tripodi, è discendente di una famiglia con una lunga tradizione comunista antimafiosa, nota non soltanto nella Piana di Gioia Tauro. Suo zio Girolamo, deputato al Parlamento nazionale, fu anche membro della Commissione d’inchiesta sul fenomeno mafioso. Il nipote Michele, con fierezza dice una frase molto bella e significativa: «I nostri genitori hanno sempre cercato di proteggerci» – una frase che fa riflettere, perché nel suo caso significa: “hanno cercato di proteggerci non facendo compromessi o chiudendo gli occhi, ma attaccando e denunciando”.
In tali contesti i segnali provenienti dalla Chiesa possono assumere grande rilevanza. Non a caso i mafiosi sfruttano le occasioni delle feste padronali per mettersi in mostra e per affermare il proprio potere sull’insieme del territorio. I preti che si oppongono vengono minacciati, a volte uccisi. Racconta don Pino, vicario generale della diocesi di Oppido Mamertina e fondatore della cooperativa sociale “Valle del Marro”, che a Polistena si è seminato bene e che ci sono stati tanti esempi positivi di collaborazione tra istituzioni laiche ed ecclesiastiche.
«La bellezza aiuta molto a crescere», esordisce il sindaco di Soriano Francesco Bartone, che ha fondato il MuMar, il Museo dei marmi, la raccolta di scultura barocca che non ha eguali da Napoli in giù, adiacente al chiostro del convento distrutto dal terremoto del 1783, che è diventato un parco, uno spazio pubblico. Di avviso analogo sono molti dei sindaci interpellati. Francesco Aieta si è ispirato all’esempio dell’ex sindaco di Rende, Sandro Principe, che a suo tempo ha aperto un museo acquistando un dipinto di Mattia Preti e che ha “osato” dare il via alla costruzione di una basilica in mezzo ad un rettifilo: «Sono tutte cose che mi sono rimaste nella testa. Da studente di lettere, quando studiavo storia dell’arte andavo a guardare il Mattia Preti di Rende… C’era una sensibilità, un sguardo alla bellezza che ti dava una marcia in più. Uno che decide di fare una basilica in mezzo ad un rettifilo, per interrompere il traffico e dare un punto di riferimento. Io farò la stessa cosa giù in marina». E Rosario Rocca, sindaco di Benestare, obietta: «Se la scuola pubblica non funziona, quale contrasto alla criminalità possiamo immaginare? La gente percepisce questo stato di abbandono… nessuno si sforza di capire le problematiche del territorio. Le pluriclassi, per esempio, sono la negazione del diritto allo studio. La gente non è ’ndrangheta, la gente subisce una cultura mafiosa che non è contrastata dallo Stato». A tal proposito andrebbe duramente criticata una politica miope che ha chiuso le scuole nei comuni piccoli. «Parghelia ha poco da offrire ai ragazzi», dice la sindaca Maria Luisa Brosio, «l’ultima opera che abbiamo collaudato è un campetto di calcio, per dare un servizio ai giovani e incanalarli allo sport. Servirebbero anche altre istituzioni, la scuola». Per frequentare la scuola i ragazzi, però, devono andare a Tropea. Viscone, giustamente, denuncia la scomparsa della scuola secondaria di primo grado dai piccoli paesi e chiede: «Chi controlla i ragazzini lontani da casa, e come può un Comune lavorare con loro, incidere sulla loro formazione, se già a undici anni diventano pendolari?». Anche Gianni Speranza, sindaco di Lamezia Terme, ha i più giovani come punto di riferimento di ogni azione amministrativa: «I bambini ti chiamano per nome e quando vai nelle scuole si mettono in fila per ricevere il bacio del sindaco». Nel 2013 la giunta Speranza ha deliberato il conferimento della cittadinanza onoraria a tutti i bimbi stranieri nati in Italia e residenti a Lamezia Terme. Oltre all’attestato di cittadini onorari, hanno ricevuto una copia della Costituzione Italiana.
La scuola, la cultura, la legalità – e l’integrazione in Europa – come volano per l’economia.
Una città importante come Lamezia Terme, ovviamente, presenta particolari questioni per quanto riguarda l’amministrazione. Innanzitutto la vita cittadina è segnata dalla diffusa violenza delle cosche che sono espressione degli appetiti contrastanti dei clan. A volte un vero e proprio clima di guerra in città. Queste condizioni allarmanti, secondo il sindaco, spiegano in parte la sua elezione e rielezione a sindaco: «Mi hanno votato, questo significa che volevano che qualcuno se ne occupasse, ma senza compromettersi direttamente. Ma non basta delegare…». E qui Gianni Speranza mette il dito nella piaga, denunciando quella fascia grigia che va dai colletti bianchi, ovvero la borghesia mafiosa, a molta gente comune sostanzialmente indifferente: «Nessuno dice, questo è un male e ci dobbiamo impegnare noi per risolverlo, per guarire. È come se, passata l’indagine giudiziaria, tutti pensassero che il sistema può continuare ad andare avanti così. E questa è una tragedia».
Caratteristiche diverse e molto particolari presenta il comune di Rosarno, diventato noto nel 2011 per gli scontri tra immigrati africani e parte della popolazione. Se la sindaca Tripodi è riuscita a risolvere non pochi dei problemi che questi scontri hanno messo a nudo, questo, probabilmente, è dovuto alla sua grande professionalità e concretezza. Da segretario comunale – il suo normale lavoro – conosce bene le procedure; da donna che ama i suoi concittadini onesti è stata in grado di sfatare anche svariati sensi comuni e molti pregiudizi. Secondo lei, a monte dei conflitti esplosi ci sono questioni più ampie, sia per quanto riguarda la presenza degli africani a Rosarno, sia per quanto riguarda il presunto razzismo dei rosarnesi, sia, infine, per quanto riguarda il controllo della ’ndrangheta. «Ci interessava anche poco dover pubblicizzare le regolarizzazioni, a noi interessava soprattutto migliorare le condizioni di lavoro e di alloggio di queste persone. Il problema è un altro, e non è mai stato affrontato, cioè la crisi dell’agricoltura, qua c’è un paese che sta morendo di fame. È un problema di tutta la Piana, è il problema dell’agrumicultura».
Questo è un libro sulla democrazia. La presenza mafiosa impedisce che i diritti di cittadinanza si trasformino in cittadinanza effettiva. Vorrei chiudere questa breve presentazione con le parole di Elisabetta Carullo, giovane donna sindaco nella Calabria degli anni Novanta del secolo scorso: «Il problema di fondo è la poca fiducia nelle istituzioni in generale, mentre la fiducia è la chiave di tutto: l’amministratore ha un obiettivo principale, quello di conquistarsi la fiducia dell’elettorato. Non per vincere le prossime elezioni, ma perché i cittadini capiscano che esiste un meccanismo che si chiama democrazia» [2].

Renate Siebert [3]

[1] P. Arlacchi, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Milano, Mondadori, p. 149.
[2] R. Siebert, Storia di Elisabetta. Il coraggio di una donna sindaco in Calabria, Milano, Pratiche Editrice, 2001, p. 60.
[3] Renate Siebert ha insegnato Sociologia del mutamento all’Università della Calabria. Una sua breve ma completa biografia con l’indicazione dei più importanti lavori scientifici è reperibile online su www.enciclopediadelledonne.it.

(direfarescrivere, anno XI, n. 112, aprile 2015)
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