Il volume Storie di una vita. La storia di un amore eterno (Armando editore, 2024, pp. 80, € 10,00), curato da Cinzia Lissi, Jessica Neri e Alessandra Fantozzi, rappresenta un esempio significativo di come la scrittura possa diventare strumento di elaborazione del lutto e di costruzione comunitaria della memoria.
Attraverso la vicenda di Katiuscia Giannessi, madre, compagna e amica, prematuramente scomparsa a 47 anni, il libro intreccia riflessione filosofica, analisi psicologica e narrazione biografica, restituendo un mosaico polifonico di ricordi.
La recensione si propone di analizzare i nuclei concettuali (morte, tempo, amore, famiglia) la struttura narrativa e le scelte retoriche, mostrando come l’opera riesca a trasformare la perdita individuale in patrimonio condiviso. In questo senso, il volume si configura non solo come commemorazione, ma come atto culturale e pedagogico, in cui la memoria resiste al nulla attraverso la parola.
Filosofia vedica e significato della morte
Il libro si apre con un saggio a cura di Lissi dedicato alla morte nella filosofia vedica. Tale scelta non è casuale: offre una cornice che colloca il destino individuale all’interno di una cosmologia millenaria, in cui la nascita e la morte non sono eventi contrapposti ma momenti di un ciclo continuo. L’idea centrale, mutuata dagli insegnamenti della Bhagavad-gita e dai testi di Marco Ferrini, è che l’anima (atman) sia eterna e increata, mentre il corpo rappresenta un involucro temporaneo, destinato a decomporsi.
Lissi utilizza una retorica basata sull’antitesi e sulla metafora «ciò che vive per definizione non può morire, e ciò che muore in realtà non ha mai vissuto». Questa frase concentra in sé il paradosso filosofico e la tensione linguistica tipiche della tradizione vedica. Inoltre, l’immagine dell’anima come «scintilla spirituale intrappolata nella materia» si configura come una sineddoche potente, capace di rendere visibile l’invisibile.
L’effetto sul lettore è duplice. Da un lato, la tragedia personale di Katiuscia trova una sorta di cornice consolatoria: la sua scomparsa non segna un annientamento, ma un passaggio. Dall’altro, si apre un dialogo fra culture: la sensibilità occidentale, incline a temere la fine, si confronta con un pensiero che accetta la morte come parte del ciclo naturale. La narrazione si carica così di un respiro universale che va oltre la biografia.
Tempo e testimonianza: Katiuscia come figura liminare
Il tema del tempo è il secondo grande filo conduttore dell’opera, esplorato dalla psicologa Maria Cannarile. L’autrice afferma che «il filo rosso di questa storia di vita è il tempo. La temporalità scandisce la sua breve vita».
L’uso di anafore («un tempo per diventare grandi, un tempo per la gioia, un tempo per il dolore») conferisce al testo un ritmo quasi liturgico, che riecheggia i toni dell’Ecclesiaste biblico.
Il tempo della malattia appare come un tempo “congelato”, cristallizzato in attesa di esiti medici e terapie. Ma, paradossalmente, questo congelamento si trasforma in occasione narrativa: la sospensione diventa linguaggio, il dolore diventa parola. In questo senso, Katiuscia emerge come figura liminare, posta sul confine tra presenza e assenza, vita e morte, dolore e amore.
Il suo atteggiamento testimonia una forma di resistenza: affronta la malattia con dignità, non smette di prendersi cura degli altri, continua a sorridere anche nei momenti di paura. La narrazione che ne scaturisce non idealizza, ma restituisce la sua complessità: donna forte e fragile, madre premurosa, compagna ironica, lavoratrice instancabile. È in questa dialettica di luce e ombra che il lettore coglie l’autenticità della sua esperienza.
Il tempo, dunque, non è solo cornice, ma tema esistenziale. È ciò che manca a Katiuscia, ma anche ciò che le sue parole e i ricordi degli altri cercano di restituirle, trasformando la durata interrotta della sua vita in permanenza simbolica.
Memoria familiare e resistenza al nulla
La parte centrale del libro è costruita come un mosaico di episodi e testimonianze che restituiscono la vita di Katiuscia. Non vi è una linearità cronologica rigida, ma piuttosto un andamento frammentario, come a imitare la logica stessa del ricordo. Ogni capitolo si concentra su un aspetto: l’amore con Ivan, i figli, la malattia, le vacanze, il Natale.
Alcuni episodi assumono un valore simbolico. Il primo appuntamento al cinema, segnato da un film sugli extraterrestri che non piacque a nessuno dei due, diventa l’allegoria di un amore che nasce fra ironia e resistenza. Le vacanze in Sicilia, ultima esperienza vissuta insieme, acquistano il senso di un viaggio iniziatico: la bellezza del paesaggio si intreccia al presagio della perdita. Il Natale familiare è rappresentato attraverso i riti domestici, i profumi delle pietanze, le canzoni ripetute: dettagli che diventano metonimie memoriali, piccole cose capaci di evocare una persona intera.
La sezione dedicata alla malattia colpisce per il tono sobrio e autentico. Non si indulge nel patetico, ma si dà voce alla forza e alla vulnerabilità di Katiuscia. In questo racconto, il compagno Ivan emerge come narratore privilegiato: la sua voce alterna amore e rabbia, ricordo e mancanza, domande senza risposta e dichiarazioni di fede («so che starò insieme a lei, che la rivedrò»). La sua testimonianza, intrecciata a quella di amici e colleghi, costruisce una coralità che impedisce al vuoto di prevalere.
La memoria qui non è solo un atto privato, ma una forma di resistenza collettiva. La scrittura diventa il luogo in cui la comunità elabora il lutto, trasformando l’assenza in presenza condivisa.
Stile e figure retoriche
Dal punto di vista stilistico, il volume si distingue per la sua natura ibrida: saggio, memoriale e testimonianza orale si fondono in un continuum narrativo. Lo stile è volutamente accessibile, riflesso della sua vocazione sociale, ma è al tempo stesso arricchito da un uso sapiente delle figure retoriche:
• Anafora: ricorre costantemente nelle testimonianze («mi manca, mi manca sempre, ogni giorno, ogni momento») traducendo in ritmo linguistico la persistenza del dolore.
• Antitesi: vita/morte, amore/dolore, luce/buio sono coppie concettuali che strutturano il testo, generando una tensione che rispecchia la condizione esistenziale dei protagonisti.
• Metafore naturali: la vita è rappresentata come tempesta, la morte come buio, l’amore come sole. Queste immagini, di matrice lirica, collocano l’esperienza personale in una dimensione cosmica.
• Metonimie e sineddochi: il gelato del primo appuntamento, la musica natalizia, i piatti cucinati diventano emblemi di una persona, condensando in un dettaglio l’intera esistenza.
• Discorso diretto: le parole riportate di Ivan e degli amici restituiscono l’immediatezza dell’oralità, creando un effetto di autenticità che avvicina il lettore alla voce viva dei testimoni.
Queste strategie stilistiche non hanno funzione decorativa, ma strutturale: sono esse a rendere il testo non solo commemorazione, ma vera e propria orazione funebre corale, capace di trasformare il dolore privato in discorso pubblico.
Storie di una vita. La storia di un amore eterno, si presenta, dunque, come un’opera ibrida che fonde filosofia, psicologia e testimonianza biografica. La vicenda di Katiuscia Giannessi diventa paradigma di una riflessione più ampia sulla morte, sul tempo e sulla memoria. Il testo, con la sua polifonia di voci e registri, mostra come la scrittura possa essere non solo ricordo, ma anche cura, resistenza, atto comunitario.
Il volume è, pertanto, interessante per la sua capacità di coniugare riflessione teorica e linguaggio popolare, rendendo accessibili temi esistenziali profondi. Le figure retoriche analizzate rivelano un uso consapevole delle risorse della lingua per dare forma al dolore, trasformandolo in memoria viva.
In definitiva, questo libro non è solo un atto di commemorazione, ma un dispositivo culturale che insegna a pensare la morte come passaggio e la memoria come resistenza al nulla. È un invito a non dimenticare, a custodire i legami, a trasformare l’assenza in presenza simbolica. Nella storia di Katiuscia, narrata per frammenti e ricordi, si riflette la condizione universale di ogni essere umano: vivere, amare, perdere, ricordare.
di Ivana Ferraro
(direfarescrivere, anno XXI, n. 235, ottobre 2025)
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