Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La cultura, probabilmente
Uno studio accurato che getta luce
su molteplici aspetti di indubbio valore
rinvenibili nel pensiero di Bergson
Per Armando, Maria Teresa Russo presenta un testo
in cui si analizzano i tratti distintivi del filosofo francese
di Mario Saccomanno
Nel pensiero di Henri-Louis Bergson (1859-1941) convergono diverse filosofie che, spaziando dallo spiritualismo antico, giungono a Descartes e Pascal. Non solo: al di là delle critiche feroci che si possono rinvenire con semplicità in molte pagine dei suoi testi, occorre includere nella sua sfera di influenza anche l’evoluzionismo spenceriano.
Tutti i temi che Bergson prese in prestito dalle altre vedute vennero trasfigurati, fino a formare affascinanti commistioni.
Anche per questo, la sua filosofia è stata un punto di riferimento nei decenni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento non solo nel panorama francese, ma in tutto il contesto europeo e americano. Inoltre, è opportuno riferire che Bergson ha esercitato un’influenza che si è spinta ben al di là dell’ambito spiritualistico. Come esempio, si pensi anche soltanto al ruolo centrale che ha assunto il suo punto di vista etico nelle riflessioni del secolo scorso.
Data questa enorme e indubbia importanza, nel corso dei decenni sono stati pubblicati notevoli studi e interpretazioni puntigliose del suo pensiero.
Dunque, tenendo conto di questo aspetto, ci si può avvicinare al testo Henri Bergson educatore. Virtù intellettuali, insegnamento, saperi umanistici (Armando editore, pp. 176, € 15,00) di Maria Teresa Russo ponendosi la domanda con cui l’autrice stessa apre il suo saggio: «Si può apportare qualcosa di nuovo alla lettura del pensiero di Bergson, vista la sterminata letteratura critica?»
È proprio Russo a rispondere positivamente a questo interrogativo. Lo fa attraverso un’accurata indagine che mira a cogliere sfumature finora poco esplorate dell’attitudine bergsoniana sia di professore, sia, ovviamente, di filosofo.
Soprattutto, l’indagine passa in rassegna i testi meno noti, frutto proprio dell’insegnamento di filosofia nella scuola secondaria che Bergson esercitò per ben sedici anni. Si tratta di discorsi di fine anno che indirizzò agli studenti, oltre che di appunti dei suoi corsi tenuti nei licei di Clermonet-Ferrand e Parigi.
Così, dalla lettura del testo emergono aspetti di notevole interesse su cui occorre soffermarsi per comprendere al meglio alcune gradazioni del pensiero bergsoniano che spesso vengono messe da parte nelle ricostruzioni del suo pensiero.

Scovare l’idea che fa comprendere l’insieme
Il primo aspetto decisivo che Russo sottolinea più volte nel saggio è il bisogno di sistematicità che emerge dall’insegnamento bergsoniano. Per comprendere al meglio questo aspetto bisogna considerare che il modo di insegnare caro al filosofo francese può essere ricostruito attraverso le sue corrispondenze e gli appunti degli allievi.
Il biennio 1881-1883 appare decisivo. Bergson è appena uscito dall’École Normale e, «imbevuto di positivismo […] realizza una svolta nel modo di pensare e nel lavoro d’indagine»: una conoscenza specialistica non potrà mai essere in grado di svelare il senso della realtà.
La conoscenza di una singola parte non potrà mai dare la visione dell’insieme. Anche nel caso in cui si conoscessero tutte le pietre di un edificio in modo accurato, non potrei mai conoscere quanto supera e ingloba ogni singolo aspetto. Nell’Introduction à la métaphysique Bergson riassunse questo aspetto fondamentale del suo pensiero affermando: «Mille fotogrammi di Parigi non fanno Parigi».
Dunque: occorre un approccio differente da quello analitico, altrimenti, dividendo in ennesime parti si arriverebbe ad avere una visione zenonizzante, si arriverebbe «a negarne l’esistenza».
È proprio qui il bisogno di legare indissolubilmente scienza e filosofia. Senza l’intervento di quest’ultima non si potrebbe ottenere quella visione d’insieme di cui si è discusso poc’anzi. Da qui, si può far cenno a un altro elemento decisivo che si incontra più volte nella lettura del testo di Russo: la difesa del valore formativo che assumono gli studi classici.

L’unità tra teoria della verità e pratica della libertà
Si accennava in apertura a quelle affascinanti commistioni a cui giunse il filosofo francese. Di sicuro, nonostante sia stato un «attento interprete del progresso scientifico», non ha mai visto «gli studi umanistici in contrapposizione alle scienze, ma come quell’elemento irrinunciabile – secondo l’immagine ben nota – per infondere e preservare l’anima di un corpo che la tecnica rischia di rendere smisurato».
Tramite la sistematicità, che altro non è se non un’esigenza propria dello spirito, si giunge alla convinzione profonda di riuscire a «conciliare evidenza razionale e certezza morale», che significa, come afferma Russo, «unità tra teoria della verità e pratica della libertà, tra sapere e personalità».
L’importanza che Bergson assegnò agli studi classici può essere riassunta attraverso la nozione di precisione. La formazione dell’intelligenza è lenta e graduata, non può mai recidere le fasi intermedie e ha bisogno di tutto il tempo necessario.
Attraverso questi aspetti si può comprendere il dogmatismo bergsoniano che, riportando anche in questo caso quanto scrive Russo, bisogna intenderlo «come la segnalazione del binario giusto sul quale collocarsi per poter poi partire autonomamente».
Forse proprio in questa autonomia che ne deriva si pone quella fedeltà alla realtà che non viene mai ridotta, né tantomeno stravolta in quei fatti cari a una visione positivistica. Al contrario, nell’approccio bergsoniano rimane sempre nella dimensione dello spirito.

Una chiara preoccupazione pedagogica
Occorre sempre tenere in mente che il Bergson professore e il Bergson pensatore sono «due espressioni complementari di uno stesso pensiero».
Infatti, è estremamente interessante sottolineare in questo contesto che il suo pensiero pedagogico non nacque mai «da una semplice riflessione teoretica, ma dalla sua personale esperienza professionale e umana di docente di Filosofia per ben sedici anni nella scuola secondaria, prima di cominciare l’insegnamento al Collège de France, che manterrà fino al 1914».
Ecco perché, come sottolineò H. Hude, Bergson presentava sempre ogni dottrina non «alla stregua di un oggetto storico, un oggetto morto, ma come un pensiero sempre possibile e vivo, a patto che si sappia farlo rivivere».
Inutile dire che questo modo d’agire, date le caratteristiche appena messe in evidenza, fu una vera e propria vocazione che rimase presente fino alla fine della sua vita. Come riportato da Russo nel testo, che cita un’intervista apparsa su Le Figaro il 6 gennaio 1845, Madame Bergson «riferisce che il marito, poco prima di spirare, ormai privo di conoscenza, immaginava di star concludendo ancora una volta le sue lezioni».

Il rifiuto del pressappochismo
Il saggio si arricchisce di alcuni testi bergsoniani utili a far comprendere ancora meglio le tematiche trattate. Per esempio, viene riportata La politesse, il discorso che Bergson pronunciò per la prima volta il 30 luglio 1885 «in occasione della distribuzione dei premi di fine anno, al liceo Pascal di Clermont-Ferrand e nuovamente, con varie correzioni e integrazioni, il 30 luglio 1892, al liceo Henri-IV di Parigi».
Oggigiorno risulta indispensabile indagare con forza nella quotidianità per dubitare di quanto appare bell’e fatto. Bergson insegna a rifiutare il pressappochismo, farlo attraverso l’utilizzo di formule che permettano di superare la rigida ripetizione delle abitudini, cioè tutti quegli aspetti che, da automi coscienti, sfociano nell’aggrapparsi esclusivamente a una ragione calcolatrice.
Sono tasselli attualissimi di un pensatore acuto, pungente e intramontabile. Per quanto detto, sarà ormai chiaro come il libro di Russo permetta di gettar luce sullo sviluppo del pensiero bergsoniano attraverso l’analisi di aspetti troppo spesso poco considerati, ma che risultano essere decisivi per la comprensione del suo pensiero.

Mario Saccomanno

(direfarescrivere, anno XVIII, n. 192, gennaio 2022)
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