Anno XX, n. 219
aprile 2024
 
La cultura, probabilmente
Madame Bovary e le poetesse del ’500:
quando vita e letteratura si fondono
e la realtà si trasforma in un romanzo
Un saggio critico sulla retrodatazione del “bovarismo”,
una vera patologia che avvelena l’animo già prima di Flaubert
di Alessandra Pappaterra
«Life? Literature? One to be made into the other? But how monstrously difficult!». Leggendo Orlando di Virginia Woolf, da cui è tratta questa affermazione, si può riflettere su quanto spesso la quotidianità sia espressione di un’esistenza in cui l’idealizzazione di ciò che non si è viaggi di pari passo con la vita concreta, edificando un binomio capace di determinare e influenzare la realtà.
Quando, nel 1857, Emma Bovary compare sulla scena, incarnando l’emblema di questo sistema binario “vita-letteratura”, si assiste alla nascita di uno studio critico e, successivamente, anche psicanalitico del bovarismo come patologia. L’eroina di Flaubert dà vita ad un movimento culturale e letterario che si presenta come terreno fertile per la penna di moltissimi scrittori e critici. Uno dei capisaldi su cui si fonda lo studio di questa corrente è il saggio Le Bovarysme, pubblicato da Jules de Gaultier nel 1902. Lo studioso francese definisce la patologia come «il potere concesso all’uomo di credersi diverso da quello che è», analizzando il comportamento di Emma, le sue frustrazioni e il suo sentimentalismo, il suo volersi immedesimare in contesti puramente fittizi e letterari. Il bovarista, secondo de Gaultier, deforma la percezione del reale aspirando in maniera morbosa ad un’idea di perfezione immaginaria. La deturpazione del reale è un elemento tipico di un soggetto di debole personalità, in cui ciò che si vorrebbe essere predomina sul reale e sul quotidiano.
Emma, innamorata e avvelenata dal Medioevo, da sterminate letture di poemi cavallereschi, inizierà dapprima a falsificare le sue condizioni interiori, romanzando un sentimentalismo che trova adito nei suoi amanti e che sfocerà in un secondo momento anche esteriormente. Insoddisfatta del ceto sociale di appartenenza, la media borghesia, inizia ad agghindarsi da gran dama, accumulando un elenco di debiti che aumenteranno col tempo.
L’eroina del romanzo mette in scena una farsa sentimentale e sociale che non la rappresenta, in cui la sua falsa interiorità ed esteriorità si mescolano annullando totalmente la sua percezione del reale.
Questo “spettacolo” di insaziabilità è il principio di rottura di tutto l’equilibrio, la serenità e la pace a cui segue automaticamente la ricerca di una nuova circostanza di irrealtà. Non è un caso infatti che, dopo essere stata abbandonata da Rodolphe, Emma si getti tra le braccia di Léon. Questa vita romanzata, come è noto, termina in maniera tragica, nel momento in cui la donna, ormai pressata dai suoi creditori a causa dei numerosi pagamenti rimandati ad oltranza, piuttosto che confessare al marito il baratro in cui è precipitata, rifiuta di ammettere le sue colpe, preferendo il suicidio. La fine di ogni menzogna genera la rottura dell’equilibrio interiore, ed Emma preferisce la morte alla realtà.
La patologia del bovarismo ha, come causa fondamentale, un lungo processo di educazione romanzesca che “avvelena” chi ne è “affetto” col passare del tempo.
La descrizione dell’agonia di Emma, dettagliata e minuziosa in ogni sintomo, a tal punto da generare pathos nel lettore, è la conclusione del suo percorso vitale condotto all’insegna di questo morbo degenerante e distruttore. Emblematico è il passaggio in cui la donna inizia ad avvertire i primi sintomi dell’arsenico. Emma vomita una sostanza di colore molto scuro, che per alcuni critici, tra cui De Biase, simboleggerebbe l’inchiostro di tutti i libri digeriti male durante il periodo della sua giovinezza.
Flaubert, plasmando Emma, è come se avesse scoperto la patologia del malessere esistenziale, della coesistenza tra illusione e realtà e la netta supremazia dell’idealismo sulla quotidianità: così l’autore ha dato voce e sembianze ad una forma di sofferenza morale che potrebbe benissimo essere retrodatata.
L’influenza flaubertiana nell’Ottocento e Novecento è stata, e continua ad essere, oggetto di studio di rinnovata fama. La maggior parte delle indagini condotte ha come punto di partenza proprio Emma, il cui personaggio, in qualche modo, ha rappresentato la scoperta stessa della patologia, nonostante, in realtà, si potrebbero scorgere infiniti squarci di bovarismo velato in opere e perfino in vite di autori antecedenti al romanzo di Flaubert.
Il caso di avvelenamento letterario più emblematico di prebovarismo è rintracciabile nel personaggio di Don Chisciotte della Mancia. Nel capitolo IV dell’opera, infatti, Miguel de Cervantes mette in scena il rogo dei libri del cavaliere hidalgo, durante il quale la sua biblioteca personale verrà sottoposta a una selezione e tutti i romanzi cavallereschi verranno censurati e bruciati, poiché causa scatenante di questa categoria di “lettori impazziti”.
L’incipit della retrodatazione in questa sede sarà rappresentato dal Rinascimento. Lo stesso de Gaultier, nel suo saggio, presenta la patologia bovaristica come fenomeno collettivo e non necessariamente individuale, scegliendo proprio come periodo storico esemplare il Rinascimento, e affermando che, sebbene il XVI secolo sia stato eccelso nell’arte, nelle scienze e nella letteratura, portava sulle spalle il peso e la perfezione dell’intellettuale del Medioevo.
Automaticamente, il Cinquecento, nonostante abbia rappresentato un secolo di fioritura di bellezza, conoscenza e cultura, cercava di mimetizzarsi e di elevarsi alla grandezza del modello precedente. L’accettazione del tempo presente viene adombrata dall’eco della perfezione medievale.
Per quanto riguarda il panorama italiano, dal punto di vista letterario, si potrebbe considerare l’affermazione e divulgazione dei Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca come espressione di eccellenza metrica e tematica allo stesso modo. I suoi versi vennero canonizzati ed emulati per tutto il secolo come modello stilistico da cui attingere.
A prescindere dal bovarismo, a livello collettivo, durante il Rinascimento – come sostenuto da de Gaultier – si potrebbe riscontrare il fenomeno sia nelle opere che nella vita di alcune poetesse italiane dell’epoca come Gaspara Stampa e Isabella di Morra.

Gaspara Stampa
Nata a Padova nel 1523, trascorse quasi tutta la vita a Venezia, città in cui sfoggiò le sue doti artistiche e poetiche nei più rinomati circoli e salotti frequentati dagli intellettuali più in vista dell’epoca: Pietro Aretino, Ludovico Dolce, Ortensio Lando, Sperone Speroni, Benedetto Varchi. Nel 1548 la poetessa conobbe, nel salotto di Domenico Venier, Collantino da Collalto, mecenate di verseggiatori ed egli stesso poeta. Tra i due iniziò una relazione amorosa molto turbolenta. Collantino, qualche mese dopo, si recò in Francia al seguito di Enrico II. Durante la sua assenza Gaspara diede vita ad un canzoniere di stampo petrarchesco, in cui alimentò il sussidio interiore generato dall’assenza dell’amato. Per molti critici il suo corpus di rime potrebbe considerarsi una sorta di diario in cui è possibile scorgere, al di là della chiara emulazione di Petrarca, la sofferenza morale e fisica della donna.
«Arsi, piansi e cantai; piango, ardo e canto» suona uno dei suoi versi più famosi di un sonetto vergato durante l’assenza dell’amato.
Il rientro dalla Francia di Collantino inizialmente rappresentò la rinascita di Gaspara.
Ben presto, sempre a causa del poco riconoscimento e delle numerose assenze da parte del conte, la poetessa comprese la non totale corrispondenza del sentimento. Fu durante questo periodo (siamo nel 1550) che Gaspara iniziò ad avvertire i primi sintomi di una crisi nervosa che accentuò la fragilità della sua salute fisica. Durante la malattia e la convalescenza ricevette le cure e l’appoggio morale di Bartolomeo Zen, e tra i due ben presto iniziò una relazione amorosa che durò fino alla morte della poetessa, avvenuta qualche anno dopo, nel 1554, sempre a causa della cagionevolezza che la accompagnava da tempo. Questo secondo innamoramento, cantato nella seconda metà del suo canzoniere, parve quasi una consolazione alle tribolazioni del primo, causa di immenso dolore.
Nel sonetto CCVIII Gaspara scriveva: «viver ardendo e non sentirne il male» enunciando quasi l’impossibilità di concepire una vita senza amore passionale, anche se causa di turbamenti. L’amore era per lei un fondamento esistenziale e imprescindibile. Nello stesso componimento infatti continuava: «ed io d’arder amando non mi pento, / pur che chi m’ha di novo tolto il core / resti de l’arder mio pago e contento». Il suo auspicio maggiore consisteva, dunque, nel ritrovare in Bartolomeo Zen il consolatore e il corrispondente di questo sentimento di cui si era beffato Collantino da Collalto.
La breve ma intensa vita di Gaspara Stampa ci permette di individuare nei suoi versi l’idealizzazione del sentimento amoroso, fonte di grande turbamento e quasi romanzato fin dal principio. Era noto che la poetessa, così come altre letterate dell’epoca, tra le quali Tullia d’Aragona e Veronica Franco, si inserisse nella categoria di “cortigiane oneste”: donne di cultura che avevano la possibilità di frequentare liberamente salotti mondani in cui si ragionava abbondantemente di letteratura, arte e filosofia.
È il suo status sociale che la collocherebbe naturalmente in un contesto di coesistenza tra vita e letteratura. La poetessa cinquecentesca potrebbe di conseguenza essere inclusa nella cerchia di intellettuali avvelenati dalla letteratura. La relazione con Collantino si prefigura fin dagli esordi come forma di sofferenza, dal momento che il conte non intendeva legarsi seriamente alla poetessa. Gaspara, durante la sua assenza, soffriva ma allo stesso tempo alimentava la speranza del suo ritorno e lo immaginava roseo. Di fatto l’impatto con la realtà, il poco interessamento da parte del giovane per i suoi versi e per il suo sentimento stesso generarono in lei uno scompiglio interiore tale da condurla ad una crisi nervosa che indebolì molto la sua salute. La rottura dell’equilibrio avvenne dopo aver preso coscienza dell’abbandono, ma la perdita di Collantino, più che determinare in lei la ricerca di una serenità morale, non fece altro che mobilitarla verso un nuovo amore, Bartolomeo Zen, al fine di ricominciare l’idealizzazione di un sentimento, che sperava potesse questa volta esser «pago e contento».
È quasi evidente che Gaspara volesse continuare a romanzare la propria vita. La sostituzione di Collantino con Bartolomeo Zen, in seguito alla crisi nervosa, ci permette di accostarla ad Emma Bovary, che dopo essere stata sedotta e abbandonata da Rodolphe cade in una depressione e in una sofferenza fisica dettata dallo scontro con la realtà e che, come è ormai noto, si concluderà con la ricerca di un nuovo amante da idealizzare: Léon.

Isabella di Morra
Nata a Favale nel 1520, condusse la sua breve vita nel contado di proprietà della famiglia. Il suo canzoniere, pubblicato postumo, la colloca tra le grandi petrarchiste del Rinascimento. Venne uccisa nel 1526 dai suoi stessi fratelli, nel momento in cui iniziarono a sospettare che potesse avere una relazione clandestina con il barone spagnolo Diego Sandoval de Castro. Qualche tempo dopo, anche quest’ultimo venne assassinato dagli stessi, per vendicare l’onore della sorella. È proprio la sorte che toccò a questi personaggi a farceli percepire (prevalentemente Isabella) in un’ottica molto romanzata. La loro morte evoca, in qualche modo, quella di Paolo e Francesca e anche di alcuni personaggi rappresentati nella giornata IV del Decameron, in cui si narrano «gli amori che ebbero infelice fine».
Critici di rinomata fama si occuparono della sua vicenda. Basti pensare a Benedetto Croce, che nel 1936 pubblicò Vite di avventure, di fede e di passione; o a Dacia Maraini, autrice di una pièce teatrale in un unico atto intitolata Storia di Isabella di Morra, in cui analizza il dramma della solitudine che caratterizzò la vita della fanciulla e naturalmente la sua tragica fine.
Isabella ispirò anche alcune trasposizioni cinematografiche, tra cui: Sexum superando – Isabella Morra (2005), film diretto da Marta Bifano, e “Io, Isabella International Film Week”, mostra cinematografica del Sud Italia dedicata al cinema femminile ed al genere documentario.
Cosa spinge ad inserire la poetessa nella cerchia nel prebovarismo? A differenza di Gaspara Stampa, che mostra all’interno del suo stesso canzoniere l’idealizzazione del sentimento amoroso, Isabella appare nei suoi versi molto più solitaria e amareggiata. È proprio la sua vita romanzata a catalogarla nella patologia: veniva, infatti, sempre descritta come un’accanita lettrice. Secondo i fratelli furono proprio il morboso studio e le letture fatte assieme al suo pedagogo a distogliere la sua mente dai normali obblighi ed esigenze quotidiane, incitandola alla relazione con il barone spagnolo. È noto che condusse un’esistenza fondata sulla letteratura; non è dunque difficile ipotizzare che lo scopo fondamentale delle sue giornate consistesse proprio nell’evadere dalla routine e dalla realtà circostante in cui non si identificava.
Uno studio accurato potrebbe essere condotto sul rapporto epistolare tra gli ipotetici amanti. Al giorno d’oggi si conservano solamente le lettere inoltrate da Diego Sandoval de Castro ad Isabella, firmate con il nome di sua moglie, Antonia Caracciolo; le missive di Isabella non sono ancora state ritrovate.
Il bovarismo può retrodatarsi rispetto a Madame Bovary così come può attualizzarsi ed essere innescato non solamente da una cattiva educazione letteraria. Al giorno d’oggi il fenomeno è fomentato anche dal cinema e in maniera particolare dalle serie tv. In entrambi i contesti lo spettatore sa di trovarsi di fronte ad uno scenario irreale, e molto spesso anche i contesti televisivi possono far immedesimare il soggetto nella fiction e nella sceneggiatura. La ricerca della finzione che sopprime l’insopportabilità della vita reale è un fattore sociale largamente diffuso, più di quanto si possa immaginare.

Alessandra Pappaterra

Bibliografia
Zygmunt Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, traduzione di Sergio Minucci, Roma-Bari, Laterza, 2006;
Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a cura di Cesare Segre, Milano, Mondadori, 2006;
Natalia Costa Zalessow, Scrittrici italiane dal XIII al XX secolo. Testi e critica, Ravenna, Longo editore, 1982;
Benedetto Croce, Poeti e scrittori del pieno e tardi Rinascimento, vol. III, Bari, Laterza, 1970;
Gustave Flaubert, Opere, a cura di Giovanni Bogliolo, Milano, Mondadori, 2006;
Jules de Gaultier, Il Bovarismo, traduzione di Elisa Frisia Michel, Milano, Se, 1992;
René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. La mediazione del desiderio nella letteratura e nella vita, Milano, Bompiani, 2009;
Dacia Maraini, Memorie di una cameriera. Storia di Isabella di Morra raccontata da Benedetto Croce, Milano, Rizzoli, 2001;
Isabella di Morra, Rime, a cura di Maria Antonietta Grignani, Roma, Salerno editrice, 2000;
Gaspara Stampa, Rime, Introduzione di Maria Bellonci, Milano, Rizzoli, 2002;
Virginia Woolf, Orlando, introduzione di Armanda Guiducci, traduzione e prefazione di Maura Del Serra, Roma, Newton Compton, 2010.
Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, a cura di Maria Antonietta Saracino, Torino, Einaudi, 2006.

(direfarescrivere, anno X, n. 100, aprile 2014)
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